Type to search

La Napoli degli anni Ottanta e il sogno più bello

Share

AGI – Da Maradona in poi i napoletani si dividono in tre categorie: chi lo vide giocare; chi arrivò tardi e s’è dovuto accontentare di immagini e racconti; chi se n’era andato troppo presto e gli altri poterono solo consolarlo dicendo, come Luciano De Crescenzo: “Non sai che ti sei perso”. Perché certi messaggi forse arrivano nell’aldilà.

Oggi tutti quanti loro, nonni, padri, figli e fantasmi ma anche chi deve ancora nascere qui radunati prendono atto che Diego ha versato, come chiunque, la tassa alla morte ma anche che il suo mito ha già dribblato il tempo (segnando poi di sinistro) e da un sacco di tempo. Ora che l’inflazione della lingua sciupa la parola “mito” (anche con l’emme maiuscola) è assai difficile trovare, per Diego, l’aggettivo giusto.

Diego e basta. Il resto è retorica dell’obbligo.

Nel 1984, quando arrivò a Napoli, tutti speravano in un sogno però nessuno immaginava quanto sarebbe stato grande e irripetibile e drammatico non solo per i due scudetti o per la Coppa Uefa né per le partite vinte, i gol fatti, ma per tutta la bellezza che emanava dal prato del San Paolo e diventava poesia di mezzogiorno o notte insonne per la città mentre la cantava il primo Pino Daniele (quello migliore).

Giusto due giorni prima della morte del pibe, il 23 novembre, Napoli ha ricordato i quarant’anni dal terremoto che segnò un altro prima e un dopo.  Quel dopo – quando Diego scende al San Paolo – erano i palazzi puntellati sui Quartieri Spagnoli, il declino dell’Italsider, la guerra della camorra nuova attratta dai soldi della ricostruzione, la fine dell’epopea romantica degli scafi blu, l’eroina, il processo Tortora, l’assassinio del giornalista Giancarlo Siani che non fece in tempo a godersi il primo scudetto ’86/87 e il suo fu uno dei vari orrori impensabili solo sei o sette anni prima, quando tramontava l’epopea del malommo Spavone, quando il guappo del Rione Sanità era ormai una commedia di Eduardo e quasi nessuno ricordava più chi avesse schiaffeggiato, all’ippodromo di Agnano, Lucky Luciano in un giorno di troppi anni prima né chi avesse vinto l’ultimo dismesso Festival di Napoli di cui approfittarono, una volta, i maldestri ladri di Operazione San Gennaro per compiere il colpo.

Finiva, era finita la Napoli di un dopoguerra troppo lungo, con un’oleografia che s’era spinta al cinema fino al termine degli anni Settanta col Corbucci di Giallo napoletano e La mazzetta. Negli anni Ottanta ci sarebbe stato Il camorrista di Tornatore, o Mi manda Picone di Nanni Loy per raccontare una città che tuttavia – fra l’orrore, il cambiamento, le teste mozzate del criminologo Semerari e del camorrista Bambulella – conobbe pure splendori forse ripetibili, ma chissà quando sarà. E se ci saremo.

Resta finora quel decennio il più glorioso: Pino Daniele, i fratelli Bennato, De Piscopo, Esposito e Senese mentre Eduardo anche se è a Roma è vivo, e anche se sindaci, assessori, vice sindaci hanno la brillantina, l’unghia lunga del mignolo e s’arrangiano coi modi della prima Repubblica, chi li commenta sui giornali si chiama Domenico Rea, Luigi Compagnone, Michele Prisco o si chiama Antonio Ghirelli e intanto è già fiorito il genio di Massimo Troisi, che commenterà lo scudetto del Napoli con Gianni Minà e poi ci sono – in questa Napoli di orrore e splendore, di teste e palloni che rotolano – ci sono Andy Warhol e Joseph Beuys dal gallerista Lucio Amelio, c’è Tullio Pironti che brucia sul tempo i grandi editori, perché è piccolo. Ed è stato un pugile.

Ci sono, ma e sempre è questione di pochi metri l’uno dall’altro, i boss vincenti della famiglia Giuliano, fattisi da contrabbandieri camorristi, ma camorristi che amano la musica per cui Lovegino, che è il capo, scriverà il testo di Annarè per Gigi D’Alessio (al quale sarà ingiustamente rinfacciato negli anni a venire), mentre Nino D’Angelo canta Quei ragazzi della Curva B che diventerà un inno semiufficiale del Napoli. Perché poi tutto, o quasi, finisce per ruotare attorno al San Paolo.

Questa, confusamente ma meticolosamente questa, è stata la città degli anni Ottanta che non sarebbe stata la stessa se non ci fosse stato Maradona, e anche quando Diego fu fotografato nella vasca da bagno a conchiglia dei fratelli Giuliano, malgrado frequentazioni ineludibili di cui non ebbe troppa coscienza, e anche quando sniffò la cocaina fu e sarà sempre lui l’uomo da ringraziare per la poesia regalata e per aver fatto sentire tutti come in un giorno di bel sole mentre si sta andando a Capri.

Sarà lui quello che salva la vita a un ragazzino chiamato Paolo Sorrentino, che per vederlo giocare con l’Empoli non parte assieme ai genitori e resta al mondo per realizzare un giorno La grande bellezza, sicché quando vincerà l’Oscar ringrazierà Maradona e qualcun altro (Fellini, Scorsese e i Talking Heads), ma ciascun napoletano che visse quegli anni fortunatissimi e terribili nella Città obliqua (come diceva la canzone di Bennato, che viaggiò tra primo e secondo scudetto, i ricordi veri sono imprecisi) deve rendere grazie a Maradona. Il proprio grazie. Perché è per lui che ognuno s’è sentito pure dopo, anche quando lui se n’andò poi ingrassò e s’ubriacò e si strafece, è proprio per lui che ognuno si è sentito vincitore di un Oscar. Per tutti e per sé.

Il calcio – in certi casi in certi luoghi in certi tempi – non è solo il calcio ma anche un’altra cosa, che quando se n’è andata sai che non torna più e neppure riesci a dire come si chiamava. Però, se adesso dici Diego, hai spiegato benissimo cos’è. Cos’era.

Vedi: La Napoli degli anni Ottanta e il sogno più bello
Fonte: sport agi


Tags:

You Might also Like