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IL TESTIMONE INASCOLTATO

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Ucraina ’33: il reporter Gareth Jones, in barba ai sovietici, assiste all’orrore dell’holodomor. In occidente non fu creduto

di Francesca d’aloja ·

“Ho camminato attraverso villaggi e kolchoz. Ovunque ho sentito lo stesso grido: ‘Non abbiamo pane, stiamo morendo’” A 70 chilometri dalla stazione di Kharkiv, scende furtivamente dal treno: inizia una marcia di quattro giorni nelle campagne dell’ucraina Il Pulitzer Walter Duranty, inviato del Nty a Mosca: “Ciò che ha scritto Jones è pura invenzione”. E annienta la credibilità del collega Analogo il trattamento ricevuto dal diplomatico polacco Ian Karski, infiltrato prima nel ghetto di Varsavia, poi in un campo di sterminio
Questa è una storia esemplare. Racconta di un uomo il cui nome dovrebbe esser noto a tutti e che invece, per ragioni di interesse, indifferenza o bieco opportunismo è stato cancellato per quasi novant’anni. I corsi e i drammatici ricorsi storici hanno fatto riemergere la sua identità dall’oblio, insieme a una parola lugubre e sinistra altrettanto colpevolmente dimenticata, Holodomor. Il termine coniato dagli ucraini per definire la carestia provocata da Stalin allo scopo di punire con lo sterminio intere popolazioni privandole di cibo, viene oggi evocato in parallelo al metodo ugualmente cinico e disumano adottato da Putin: far morire di freddo le medesime popolazioni. Addentrandoci nei dettagli di questo orrore premeditato, allora come adesso, non si può fare a meno di provare dolore per un popolo del quale si tenta con ogni mezzo di cancellare l’identità, la cultura, l’esistenza, e quindi disprezzo contro l’eterno mandante di questa maledizione, infine rabbia verso tutti quelli che non avendo titolo per parlare sentenziano, riempiendosi la bocca di ipocriti distinguo fra “aggressore” e “aggredito”, quando il termine più adatto sarebbe semmai “perseguitato”. A ricordarcelo è un secolo di storia.
“Ho camminato attraverso villaggi e kolchoz. Ovunque ho sentito lo stesso grido: ‘Non abbiamo pane, stiamo morendo’”. Comincia così l’articolo, pubblicato sul New York Evening Post nel marzo del 1933 e rilanciato dalla stampa britannica, a firma del giornalista gallese Gareth Jones, primo a denunciare pubblicamente quel che il regime sovietico stava infliggendo all’ucraina. Nessuno, fino a quel momento, aveva mai varcato i confini ucraini, opportunamente resi inaccessibili dai russi per impedire eventuali testimonianze dello sterminio. Ci riuscì il ventisettenne Gareth Jones, mettendo a repentaglio la sua vita in nome della verità.
Della carestia in Ucraina si sapeva molto poco e nonostante la presenza di cronisti internazionali inviati a Mosca le notizie giungevano vaghe e frammentarie. Un articolo apparso nel dicembre 1932 sul Guardian Manchester in forma anonima approfondiva la questione evocando lo spettro di una tragedia in atto, senza però fornire prove a conferma della sua veridicità. Gareth Jones vuole saperne di più, e forte del suo ruolo di consigliere per gli affari esteri dell’ex primo ministro David Lloyd George (parlava correntemente francese, tedesco e russo), riesce a ottenere un permesso per visitare una fabbrica a Kharkiv, l’allora capitale dell’ucraina. Non è solo il fiuto a spingerlo fin laggiù, sin da bambino ha sentito evocare quel lontano paese nei racconti di sua madre, che in Ucraina aveva lavorato come istitutrice dei figli di Arthur Hughes, erede del magnate John, fondatore della città di Hughesovka, oggi Donetsk. Il biglietto da visita dell’ex primo ministro britannico gli fornisce un efficace lasciapassare, un vantaggio che poco prima lo aveva reso protagonista di un’esclusiva straordinaria.
Quando, il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler viene nominato cancelliere del Reich tedesco, Gareth Jones si trova a Lipsia ad assistere all’evento. Ventiquattro giorni dopo farà parte del gruppo di sole sedici persone a bordo del Richtofen, “il più potente e veloce aereo trimotore della Germania” diretto a Francoforte, dove il neo eletto cancelliere avrebbe tenuto un comizio. Tranne Gareth Jones e un collega giornalista gli altri quattordici passeggeri sono tutti nazisti “in uniforme nera, con teschio d’argento e ossa incrociate ricamati sui loro copricapi”. Sul suo taccuino, Jones appunta: “Se questo aereo cadesse la storia dell’europa cambierebbe. I passeggeri di questo volo sono una massa di dinamite umana. A pochi metri da me è seduto Adolf Hitler, cancelliere tedesco e leader del risveglio nazionalista più vulcanico che il mondo abbia mai conosciuto. Mi chiedo come abbia fatto quest’uomo dall’aspetto così ordinario a farsi prendere per un dio da quattordici milioni di persone…”. Dietro Hitler siede “un ometto che ride tutto il tempo. Ha una testa minuta e occhi castani che brillano di arguzia e intelligenza. Si chiama Goebbels, e il suo è un nome da ricordare, perché giocherà un ruolo importante in futuro.” L’aereo atterra a Francoforte. Tre giorni dopo il Reichstag viene dato alle fiamme.
Non sbagliava il britannico Lloyd George quando affermò che Gareth Jones aveva “l’abilità quasi infallibile di arrivare alle cose che contano”, fu proprio questa innegabile abilità a spingere Jones, un mese dopo il famoso volo, su un treno diretto a Mosca, per indagare sulle reali conseguenze della collettivizzazione delle fattorie agricole imposta da Stalin in nome di un ambizioso progetto di industrializzazione dell’unione sovietica, il noto piano quinquennale. Malgrado la propaganda sovietica alimentasse l’immagine di una Unione produttiva e autosufficiente, correvano voci di una violenta repressione in Ucraina ai danni dei kulaki (i contadini agiati, coltivatori diretti o piccoli proprietari terrieri), che si opponevano alla requisizione delle loro fattorie, e per questo arrestati, condannati e rinchiusi nei gulag. Nessuno era autorizzato a smentire la propaganda, nessuno si sognava di farlo, nemmeno quando la repressione si era ormai estesa a tappeto, colpendo intellettuali, uomini di chiesa e oppositori di ogni classe. Il mondo è tenuto all’oscuro, l’ucraina viene isolata, i suoi confini proibiti e invalicabili: Stalin interrompe il rifornimento di cibo dando inizio a una carestia che durerà un anno intero e provocherà la morte di cinque milioni di persone (gli storici non sono ancora in grado di stabilire una cifra esatta, comunque tra i quattro e gli otto milioni di morti, una moltitudine impressionante di nomi, volti e storie irrimediabilmente scomparsi dei quali non si saprà mai nulla. Non esistono lapidi né archivi, tutto rimosso sotto minaccia…). Il cammino verso il riconoscimento della nazione ucraina viene brutalmente interrotto. La fiera opposizione degli ucraini al dominio russo è storia triste e antica.
Gareth Jones riesce a ottenere un lasciapassare dal console tedesco, e alla fine del febbraio 1933 sale su un treno diretto a Kharkiv. E’ un’occasione preziosa, tuttavia Jones sa perfettamente che non sarà una visita ufficiale a fargli conoscere la realtà. A settanta chilometri dalla stazione di arrivo, scende furtivamente dal treno: sarà il suo istinto a portarlo dove nessuno è mai passato. Ha così inizio una marcia di quattro giorni nelle campagne innevate dell’ucraina, depredate dai sovietici e abitate da fantasmi. Jones riporta tutto ciò che vede sul suo taccuino, e ciò che vede va al di là di ogni immaginazione: uomini, donne e bambini ridotti a pelle e ossa, i più fortunati sopravvissuti grazie al poco foraggio rimasto nelle stalle, gli altri costretti a nutrirsi di topi, insetti, cortecce d’albero, fino ad arrivare, in certi casi, al più abbietto e disperato tentativo di sopravvivenza: il cannibalismo. I sovietici avevano prima requisito tutto il grano della rigogliosissima Ucraina (l’oro di Stalin…), poi si erano accaniti sui depositi, svuotandoli di ogni possibile scorta alimentare e giustiziando chiunque avesse tentato di nascondere un qualsiasi prodotto commestibile. Quando Gareth Jones arriva in Ucraina, la carestia ha raggiunto il suo picco più alto: i cadaveri abbandonati lungo le strade o all’interno delle fattorie sono la testimonianza di un genocidio (ci vorranno ottantacinque anni prima che l’holodomor sia riconosciuto come tale. Diciassette i paesi firmatari, l’italia non è fra questi, tantomeno la Francia o il Regno Unito. La Germania si appresta a votare una mozione di riconoscimento del genocidio). Al quarto giorno di marcia il giornalista Gareth Jones viene intercettato dagli ufficiali sovietici, la fortuna lo assiste e il fermo si risolve con l’intimazione a lasciare immediatamente il paese. Due giorni dopo è a Berlino, dove convoca seduta stante una conferenza stampa per rivelare ciò che ha visto. La stampa dà scarsissimo rilievo alle sue dichiarazioni, Jones non demorde e scrive tre articoli destinati ai giornali inglesi, firmandoli col suo nome. Nessuno raccoglie il suo appello, tantomeno i colleghi, i quali o lo ignorano o lo accusano di aver mentito. Su tutti spicca il colpo basso sferrato da uno dei più illustri, il premio Pulitzer Walter Duranty, inviato del New York Times a Mosca, che dopo sole ventiquattr’ore dall’uscita degli articoli di Jones, replica così sulle pagine del suo giornale: “Ciò che ha scritto il giornalista gallese Gareth Jones è un racconto dell’orrore di pura invenzione. L’ucraina ha fame ma non muore di fame” (“Hungry but not starving”). Le dichiarazioni dell’allora stimato corrispondente americano (negli ultimi anni la sua controversa vicinanza al regime sovietico e la comprovata divulgazione di notizie false sono state oggetto di due mozioni per la revoca del premio Pulitzer) annientano la credibilità del giovane collega. Jones replica alle calunnie scrivendo una rettifica al Nyt, che verrà pubblicata in margine al giornale soltanto un mese dopo, quando dell’ucraina non parla più nessuno. Le conseguenze, scontate e prevedibili: Walter Duranty mantiene saldo il suo posto a capo dell’ufficio di corrispondenza del Nyt a Mosca, Gareth Jones viene accusato di spionaggio e bandito dall’unione sovietica.
Un epilogo che ricorda l’analogo trattamento ricevuto dal diplomatico polacco Ian Karski che nel 1942 riuscì a infiltrarsi prima nel ghetto di Varsavia, travestendosi con abiti laceri e cucendo una stella di David sulla giacca, poi in un campo di sterminio sotto le spoglie di poliziotto lettone. L’esperienza fu agghiacciante e la reazione immediata: il mondo doveva sapere quel che stava accadendo. Confidando in una repentina presa di posizione da parte dei governi alleati, Karski riferisce prima ai rappresentanti del suo governo, poi al segretario di stato britannico e infine al presidente Roosevelt. Nessuno crede alla sua testimonianza. Nessuno vuole credergli. Dal fallimento della sua missione scaturirà un senso di colpa che non lo abbandonerà mai. “Ricorda quello che vedi, ricorda ogni cosa e raccontala al mondo” lo avevano supplicato i prigionieri del ghetto, lo stesso avevano fatto i contadini ucraini affidando a Jones il compito di rivelare la verità. Lo ottemperarono entrambi, il compito, ed entrambi furono ignorati. Le parole non risultarono sufficienti. (Avessero potuto disporre del vantaggio, a noi riservato, di immagini immediate e inconfutabili da mostrare al mondo, forse la Storia avrebbe avuto un altro destino. A nessuno, oggi, è permesso di “non sapere”).
Ian Karski scrive un memoriale e si ritira dalla vita pubblica, per Jones l’epilogo sarà più drammatico. Ostracizzato dall’establishment, troverà un impiego da cronista locale in un piccolo giornale di provincia, ma il richiamo del mondo si fa presto sentire e decide di rivolgere le sue attenzioni all’estremo oriente. Stavolta vuole indagare sull’occupazione giapponese in Cina. Trascorre un paio di mesi in Giappone, poi si trasferisce in Cina con l’obiettivo di raggiungere la Mongolia occupata dai giapponesi.
Noleggia un’automobile e intraprende il viaggio. Il 17 agosto 1935, alla vigilia del suo trentesimo compleanno, il corpo senza vita di Gareth Jones viene ritrovato in una sperduta località della Mongolia. A ucciderlo, tre colpi d’arma da fuoco. Le circostanze della sua morte non vennero mai chiarite, e le responsabilità addossate a fantomatici “banditi cinesi”. Non costituì mai una prova il fatto che l’uomo che aveva fornito l’automobile a Jones era in realtà un agente del Nkvd, la polizia politica sovietica.
Nel 1982 Jan Karski fu dichiarato Giusto tra le Nazioni.
Nel 2008 Jones è stato nominato eroe nazionale in Ucraina.

Fonte: Il Foglio