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Il lento ritorno alla normalità della Cina

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La Cina esce dalla fase di lockdown e affronta la difficile fase del ritorno alla normalità, tra iniziative per la ripresa e timori di nuovi focolai all’interno del Paese. I fondamentali dell’economia rimangono saldi, dichiara ufficialmente il governo, ma l’epidemia diffusasi da Wuhan ha colpito duro: il risultato è apparso chiaro il mese scorso quando, per la prima volta da quando pubblica regolarmente i propri dati economici, la Cina ha segnato una contrazione, del 6,8%, del proprio prodotto interno lordo.

Pechino ha tagliato i tassi di interesse e i requisiti di riserva delle banche per sostenere l’economia, ed è pronta a mettere in campo un piano di investimenti in infrastrutture, ma la realtà del post-lockdown, al di là dei numeri e dei comunicati ufficiali, appare di complessa gestione, con il rischio di forti contraccolpi sul piano sociale.

La ripresa non è ancora a pieno regime, il Trivium National Business Activity Index, che calcola l’utilizzo della capacità produttiva cinese era il mese scorso all’82,8%, e la situazione esterna appare complessa. Pur rimanendo in territorio positivo, l’indice Pmi ufficiale per il manifatturiero ha segnato un rallentamento rispetto al valore di marzo scorso, a 50,8, e risente del calo degli ordini per le esportazioni: più marcato ancora è il calo del dato calcolato da Caixin, che si concentra maggiormente sulle imprese private, e scende in territorio negativo, sotto quota 50, fermandosi a 49,4.

“Lo shock economico può essere più grande di quanto precedentemente immaginato e la ripresa economica potrebbe impiegare più tempo”, è il giudizio di Zhengsheng Zhong, chief economist di Cebm Group. Sul piano interno, i consumi non danno segnali di ripresa, e a marzo, con le prime riaperture, hanno segnato una contrazione del 15,8% rispetto allo steso periodo dello scorso anno: per incoraggiarli, tre amministrazioni locali – le province orientali del Jiangxi e dello Zhejiang e la città di Longnan nel Gansu, a nord-ovest del Paese – hanno lanciato la proposta di fine settimana più lunghi di 2,5 giorni.

I primi esperimenti sono già cominciati, ma si affiancano alle paure di chi, al termine del lockdown, non ha più potuto tornare al lavoro o si è visto ridurre l’orario e il salario. Secondo i dati ufficiali il tasso di disoccupazione è calato dal 6,2% al 5,9% il mese scorso, ma altri dati non ufficiali parlano di un tasso di disoccupazione al 20%: secondo stime dell’Economist Intelligence Unit di aprile, entro la fine dell’anno potrebbero essere 27 milioni le persone in Cina a perdere il posto di lavoro (cinque milioni delle quali lo hanno già perso nel primo trimestre 2020) mentre altri 250 milioni di lavoratori dipendenti potrebbero vedersi tagliato lo stipendio tra il 10% e il 50% entro la fine dell’anno.

Un segnale di parziale ottimismo sembra arrivare dagli ultimi dati del turismo. Approfittando delle riaperture di molti luoghi turistici, circa il 70% del totale, nei primi tre dei cinque giorni di festa nazionale per il 1 maggio, si sono spostati all’interno del Paese 85 milioni di persone, generando ricavi per 35,06 miliardi di yuan (4,54 miliardi di euro) secondo stime del Ministero della Cultura e del Turismo: a oltre metà del periodo di feste, la cifra non sembra comunque in grado di raggiungere i livelli dello scorso anno, quando durante tutto il periodo delle feste di maggio si generarono ricavi pari a 117,7 miliardi di yuan (15,24 miliardi di euro al cambio attuale) e all’interno del Paese si spostarono 195 milioni di turisti.

Sull’intero 2020, poi, il governo cinese stima che il contraccolpo subito dall’epidemia produrrà un calo del 15,5% di turisti rispetto allo scorso anno e del 20,6% dei ricavi. A pesare, nello scenario più a lungo termine per gli imprenditori più lungimiranti, ci sono anche le tensioni geopolitiche, già oggi evidenti. Due soprattutto, sono i timori elencati in un’intervista rilasciata il mese scorso al Beijing News da Cao Dewang, presidente di Fuyao Group, azienda attiva nel vetro per automobili e per l’edilizia: la prima è l’affermarsi nel medio-lungo periodo di una tendenza anti-globalizzazione, che definisce “inevitabile” e che si accompagnerà a una riduzione del ruolo della Cina nella catena industriale globale, con il possibile de-coupling delle economie cinese e statunitense; la seconda, più nel breve termine, invece, è la possibile accelerazione dello spostamento della filiera globale dalla Cina verso altre zone.

Il sud-est asiatico esercita un’attrazione, sostiene l’imprenditore cinese, anche se non viene visto come una minaccia imminente: la regione soffre di ritardi nelle aperture, sullo stile di quelle varate dalla Cina a partire dalla fine degli anni Settanta, e le imprese straniere devono tenere in considerazione i tempi lunghi e i costi di avviamento di un impianto. L’orizzonte, però, non appare sereno. “Il declino della competitività dell’industria manifatturiera provocherà il declino della competitività del Paese”, è il commento finale di Cao, “e questo deve suscitare una riflessione in tutti noi”.

Vedi: Il lento ritorno alla normalità della Cina
Fonte: estero agi


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