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BERLINGUER FRA COMPROMESSO STORICO E QUESTIONE MORALE: IL POPULISMO NEL PCI (parte 2^)

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  1. Dal compromesso storico alla “questione morale”

La fase di impegno dei comunisti nel governo del paese si concluse nella primavera 1979, circa un anno dopo il rapimento e l’omicidio del Presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro. La reciproca compatibilità nell’esecutivo di DC e PCI era stata compromessa dalle profonde divergenze di vedute che alimentavano il rapporto fra i due partiti, principalmente su questioni economiche e del lavoro, che avevano accresciuto nei comunisti la convinzione di essere relegati in un ruolo marginale rispetto alle più importanti scelte di governo. Dapprima la fine della solidarietà nazionale viene sancita nel dibattito interno al PCI attraverso il passaggio dalla strategia del “compromesso storico” a quella dell’ “alternativa democratica” (1980). Consapevoli dell’impossibilità pratica – per condizioni politiche non ancora mature – di un’alternativa di sinistra, l’obiettivo diventava la ricerca di governi di solidarietà nazionale che escludessero la DC, ma ben presto questa strategia si dimostrò inefficace, non potendosi ravvisare i necessari presupposti nella disponibilità delle forze politiche che avrebbero dovuto favorire l’esclusione dei democristiani del governo, a cominciare dal PSI, che con la svolta del Midas e l’elezione di Craxi a segretario scelse la via dell’autonomia socialista in una prospettiva marcatamente anti-comunista. Successivamente, con un’intervista concessa a Scalfari per la Repubblica (Berlinguer, 1981 e 2020), la scelta di Berlinguer si indirizza verso la cosiddetta “questione morale”, con la quale si cerca di alimentare l’idea di un partito non solo alternativo ai partiti accreditati nell’area di governo ma anche costitutivamente “diverso” da tutte le altre forze politiche per la sua idea della politica e della democrazia.

Il j’accuse di Berlinguer si indirizza indiscriminatamente a tutti i partiti italiani, definiti come “macchine di potere o di clientela”, che si limitano alla gestione di interessi “i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti … senza perseguire il bene comune”(Berlinguer, 2020; p. 6). Rispetto a queste valutazioni, la mancata presa di coscienza da parte degli elettori dell’irrimediabile stato di degenerazione che avrebbe colpito i partiti italiani sarebbe dovuta – secondo Berlinguer – all’essere sotto ricatto da parte dei partiti stessi, che li terrebbero ostaggio con le loro prebende. In tal senso, i partiti concorrenti sarebbero “macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere” (Berlinguer, 2020; p. 10), finalizzate all’occupazione dello Stato attraverso il ricorso a una logica puramente spartitoria. Di contrasto, sempre secondo la visione enucleata dalla “questione morale”, il PCI sarebbe l’unica forza politica in grado di sottrarsi a questo gioco grazie alla sua irriducibile e congenita intransigenza, che gli avrebbe permesso di sottrarsi alle lusinghe del potere, rimanendo saldo nella propria integrità politica e morale. A tale proposito, Berlinguer afferma: “a noi hanno fatto ponti d’oro, la DC e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione di intransigenza e di coerenza morale e politica”; ancora: “ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto”; e infine: “ce ne siamo andati sbattendo la porta quando abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui” (Berlinguer, 2020; p. 10). Un linguaggio da cui sprigiona una retorica chiaramente populista, ovvero che potrebbe facilmente essere associata a qualche leader politico del nostro tempo che siamo soliti tacciare di “populismo”.

  1. “Questione morale” e culto dell’alterità comunista: una strategia populista

La “questione morale” presenta tutti i tratti retorici del discorso populista, a partire dalla discriminazione fondata su un giudizio morale fra “noi”, rappresentanti gli interessi non solo della classe operaia propriamente detta ma anche delle masse lavoratrici in generale (Berlinguer, 2020; p. 13), e “loro”, tutti gli altri partiti, a cominciare da quelli di governo, che vivono di un consenso clientelare e proliferano nell’occupazione dello Stato. Ciò che, nel ragionamento di Berlinguer, è riconducibile in ultima istanza all’ostracismo dichiarato dagli altri partiti nei confronti dei comunisti, una riedizione della “conventio ad excludendum” post-governo di solidarietà nazionale, per via del proprio orientamento anti-capitalistico. Nelle parole del leader comunista, la causa prima e decisiva della degenerazione morale dei partiti e del conseguente sfascio del paese sarebbe “la discriminazione contro di noi”(Berlinguer, 2020, p. 17), mentre lo sviluppo economico e sociale capitalista sarebbe “causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza” (Berlinguer, 2020; p.12). In questo senso, l’alterità comunista viene individuata, da un lato, nell’intransigenza morale e, dall’altro, nel monopolio, vantato con orgoglio, di una critica anti-sistema che ha come bersaglio l’economia capitalistica. È infine rispetto a questo doppio binario che prende forma l’attacco alla Democrazia cristiana, partner di coalizione nel governo prima delle astensioni e poi della solidarietà nazionale, che viene indicata come il principale responsabile della degenerazione morale e come il garante del fallimentare modello capitalistico di sviluppo economico e sociale del paese.

La natura schiettamente populista della scelta che il PCI fa all’indomani della fine della solidarietà nazionale alzando il vessillo della “questione morale” è il prodotto di un adattamento strategico alle conseguenze politiche derivanti dal fallimento della prospettiva del “compromesso storico”. Naufragata l’intesa con la DC che, dal punto di vista comunista, avrebbe dovuto prevedere la possibilità di attestare la democrazia italiana su una posizione (togliattianamente) più “progressiva”, rimane un unico modo per continuare a condurre la battaglia politica contro il capitalismo occidentale: metterne radicalmente in discussione presupposti ed esiti da una prospettiva morale e di giustizia sociale. E farlo a partire da una condanna indiscriminata di tutti (o quasi) i partiti dell’area di governo, così da realizzare anche una critica indiretta delle istituzioni liberal-democratiche attraverso il giudizio negativo espresso sui suoi attori rappresentativi. È indicativo, a tale proposito, che nell’intervista di Scalfari a Berlinguer l’unico partito che in parte si salva sia il PRI, che viene apprezzato per la sua ferma condanna dei fatti legati allo scandalo P2. Anche se ciò non impedisce comunque di rimproverargli – attraverso una critica direttamente rivolta al neo Presidente del consiglio dei ministri Spadolini – di non aver avuto sufficiente coraggio nella formazione di un governo che avrebbe dovuto essere meno condizionato dalle segreterie dei partiti di maggioranza (Berlinguer, 2020; pp. 24 e 25).

  1. Dalla “lotta di classe” al “popolo del lavoro”: la campagna contro i licenziamenti alla FIAT fra lotta politica e strategia anti-sistema

Ma per rendere più efficace tale critica è necessario condurla su un terreno diverso dalla contrapposizione di classe, individuando un referente sociale più ambiguo e indistinto. Non più, o non solo, la classe operaia propriamente detta, ma – al suo posto – l’insieme delle masse lavoratrici, volgendo in particolare uno sguardo privilegiato verso i ceti più emarginati, il cosiddetto “sottoproletariato”, le donne. In questo modo, la critica all’economia capitalistica si estende oltre la sua tradizionale interpretazione classista, cioè lo storico antagonismo fra capitale e lavoro, abbracciando l’intero “popolo del lavoro”, insieme ai soggetti vittima di emarginazione sociale, anzitutto sfruttati e disoccupati. Il ricorso in chiave strategica a una retorica populista come quella soggiacente alla questione morale consente al PCI di superare anche le contraddizioni sperimentate durante l’esperienza di governo, come in un lavacro palingenetico grazie alla quale il partito può rigenerarsi attraverso la ricostruzione di un rapporto autentico con le masse lavoratrici e popolari deluse e distanti dal partito a causa della scelta di allearsi con la DC. Come osserva Berlinguer, “dopo le politiche del 1979 rischiammo una sconfitta che poteva metterci in ginocchio. Non tanto per la perdita di voti, che pure fu grave, quanto per un dato di fatto: durante i governi di unità nazionale noi avevamo perso il rapporto diretto e continuo con le masse. […] Ma sta di fatto che noi, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo, vedemmo indebolirsi il nostro rapporto con le masse nel corso dell’esperienza delle larghe maggioranze di solidarietà” (Berlinguer, 2020; p. 21).

Emblematica di questa repentina inversione di rotta sarà la dura campagna condotta da Berlinguer e il PCI, al fianco della CGIL, contro i licenziamenti programmati dalla FIAT nel 1980. Una mobilitazione generale che spiazzò anche gli altri sindacati confederati (CISL e UIL), così come il Partito socialista italiano, che dopo la partecipazione dei comunisti al governo di solidarietà nazionale non si potevano aspettare un appoggio incondizionato agli operai torinesi prima nello sciopero a oltranza e poi nell’occupazione della fabbrica. La scelta  comunista a favore di un’opposizione dura contemplava evidenti elementi di lotta di classe, rappresentando una strategia efficace anche ai fini di rinsaldare le fila, insieme alla CGIL, fra i lavoratori metalmeccanici, dopo le incomprensioni sorte durante la stagione dei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, in quella particolare situazione, gli obiettivi della lotta di classe si saldavano chiaramente con il culto della diversità alimentato dalla “questione morale”, delineando le condizioni per un’interlocuzione politica a più ampio raggio, in grado di coinvolgere i più diversi settori sociali colpiti dalla crisi economica. Era infatti convinzione di Berlinguer che le trasformazioni sociali che stavano attraversando la società italiana rendessero ormai inadeguato il tradizionale approccio classista ereditato dalla prospettiva marxista-leninista. Per questo motivo, tra gli altri, il PCI decise, da un lato, di intendersi come interlocutore più ampio di tutto il mondo del lavoro e, dall’altro, di evidenziare un’attenzione particolare e fino a quel momento inedita nei confronti di soggetti fragili, oltre che in larga prevalenza esclusi dal processo produttivo, quali gli emarginati e – ancora nel contesto italiano – le donne (Mancina, 2014). Questo nuovo punto di vista sulla realtà sociale, coniugato al culto dell’alterità comunista coltivato attraverso la “questione morale”, rendeva l’opposizione condotta dal partito nei confronti delle forze di governo assolutamente non negoziabile, aprendo la strada a una polarità fra “noi” comunisti e “loro” [tutti gli altri partiti] che assumeva chiaramente i contorni di una lotta politica irriducibilmente anti-sistema, corrispondente alle forme tipiche della retorica populista. Secondo una strategia che inizialmente sembrava anche destinata a sortire risultati, come dimostrava l’elevato numero di persone di diversa estrazione sociale (operai, studenti, lavoratori, commercianti) che, fin dal principio, assistevano ai comizi improvvisati del segretario comunista di fronte ai cancelli delle fabbriche. Nelle parole di un testimone diretto del comizio tenuto dal segretario comunista di fronte ai cancelli dello stabilimento FIAT di Rivalta: “Quando, il 26 settembre, Berlinguer giunse davanti allo stabilimento di Rivalta per il primo incontro, ad attenderlo non c’era il picchetto di sciopero, ma una folla enorme, nella quale si mescolavano i dipendenti della Fiat e di altre aziende, le famiglie di operai senza salario da tre settimane, i commercianti, gli studenti. Il leader comunista appariva improvvisamente la sola figura capace di trovare una via d’uscita; e la folla lo attendeva anche davanti agli altri stabilimenti”[si veda: http://www.gramscitorino.it/iniziative/in-archivio/11-istituto/progetti-in-archivio/167-berlinguer-ai-cancelli-della-fiat-un-ricordo-di-lorenzo-gianotti.html]. Ma di lì a pochi anni, come dimostrerà emblematicamente la sconfitta nel referendum abrogativo della scala mobile nel 1985, anche questa strategia approderà al definitivo fallimento.

  1. Quando la lotta politica diventa fuga dalla realtà: l’eredità anti-sistema di una certa sinistra

La via ripida e stretta della critica del capitalismo, volta ad assecondare la forte conflittualità sociale del momento, viene peraltro percorsa con le ambiguità necessarie a consentire una critica di sistema che non metta in discussione i soggetti protagonisti dell’economia, senza che se ne avvertano le stridenti contraddizioni. L’idea che l’iniziativa individuale, il mercato, l’impresa privata possano sopravvivere a una prospettiva del superamento del modello di sviluppo capitalistico è sia ingenua che strumentale. Nel momento in cui – nell’intervista a Scalfari – alla retorica populista della “questione morale” si associa un’interpretazione del sistema economico in cui si ritiene essenziale la libera iniziativa individuale e si considerano irrinunciabili istituzioni quali il mercato e l’impresa, affermando che è il capitalismo ad impedire un loro funzionamento appropriato e che la responsabilità di tale situazione si deve alla centralità della DC nel sistema politico, la fuga dalla realtà che contraddistingue l’approccio di Berlinguer si evidenzia in tutta la sua natura. Emblematico, dal punto di vista simbolico, è il provocatorio invito rivolto al governo a trasferirsi a Torino per negoziare i licenziamenti alla FIAT con il sindacato davanti ai lavoratori. E ben poco plausibile appare la critica rivolta alla socialdemocrazia, rispetto al suo presunto disinteresse nei confronti degli emarginati, dei sottoproletari e delle donne (Berlinguer, 2020; p. 13). Esempi di una strategia e un discorso politico che alimentano un culto della diversità a tutto tondo, rispetto al quale anche l’esperienza di governo maturata nell’ambito della tradizione socialdemocratica europea viene messa radicalmente in discussione in ragione di una velleitaria alternativa di sistema.

La “questione morale” sollevata da Berlinguer ed elevata a strategia politica all’indomani del fallimento della solidarietà nazionale trova significative resistenze all’interno del gruppo dirigente del Partito comunista italiano. Dal sarcasmo di Nilde Iotti, che in Direzione nazionale parlerà di un partito sul “monte Sinai” che “guarda la sconcezza degli altri partiti nella valle” al commento di Napolitano che su “l’Unità” chioserà l’intervista di Berlinguer in termini di “vuote invettive”, fino a Natta che ravviserà nelle parole del segretario “un tono moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri”, a rischio che “la contrapposizione tra gli altri e noi diventi così profonda da non lasciare margine a nessuna politica, da isolarci, […] una denuncia radicale ma sterile” (Romano, 2023). Ciò riveste una certa importanza, poiché sta chiaramente a significare che all’interno del PCI anticorpi nei confronti della retorica populista continuavano comunque ad esserci. Anche se il culto berlingueriano della diversità che ha alimentato la strategia del PCI dalla fine del compromesso storico fino alla battaglia contro il referendum sulla scala mobile, celebrato circa un anno dopo la morte di Berlinguer, ha certamente esercitato un’importante influenza sulle vicende della sinistra italiana, anche nella fase post-comunista. E ancora oggi continua a esercitare la sua influenza. Un’idea di superiorità morale nella quale trova fondamento non solo la critica della società moderna, in particolare rispetto alla visione negativa e antagonista dell’economia capitalista, ma anche il pervicace rifiuto della valenza democratica del responso elettorale del voto, quando questo favorisce la parte avversa. Così come il permanere di un’attrazione fatale subita da parte di partiti e movimenti politici che si caratterizzano in virtù di una radicale critica anti-sistema. Ciò che di recente è per esempio accaduto quando si è attribuito un valore strategico all’intesa con il Movimento 5 Stelle e il suo leader, Giuseppe Conte, in vista della costruzione di uno schieramento di centro sinistra elettoralmente competitivo, a livello sia di gruppo dirigente sia di iscritti e militanti.

I tratti populisti che si ravvisano nel PCI dell’ultima fase della segreteria Berlinguer non rappresentano soltanto un esempio paradigmatico di come un partito culturalmente e strutturalmente refrattario nei confronti del populismo possa, in determinate circostanze, restarne comunque contagiato, ma individuano anche quel sostrato di anti-politica che nel corso del tempo ha continuato a influenzare profondamente la cultura politica della sinistra del nostro paese. Superata l’esperienza dei movimenti sociali della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, fra i quali il movimento della sinistra extraparlamentare del 1977, rispetto ai quali il PCI ha sempre mantenuto un orientamento critico, l’intransigenza morale di natura essenzialmente populista e anti-politica che ha contraddistinto la scelta berlingueriana a favore della “questione morale” e della correlata critica radicale della società moderna e del capitalismo ha senza dubbio rappresentato un grave ostacolo per l’affermazione di una prospettiva progressista di stampo riformista. Un limite che ancora oggi, oltre trent’anni dopo la fine del PCI e quindici anni dopo la nascita del Partito democratico, erede in ultima istanza della tradizione comunista e in parte di quella democristiana, continua a condizionare il modo in cui ampi settori del centro-sinistra italiano interpretano la politica. Con le conseguenze che tutti abbiamo anche adesso sotto gli occhi, dal punto di vista del consenso e della cultura di governo.