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America2020: Trump, Biden e il colore dei soldi

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AGI – “Follow the money“, è una vecchia regola e funziona sempre. Bisogna seguire il fiume del denaro e la curva della pandemia per capire cosa succede nella campagna presidenziale americana. Siamo al 3 settembre, mancano due mesi esatti al voto. E succede di tutto, è lo spettacolo della politica del dollaro. È come giocare a biliardo. Siamo sul set del “Colore dei soldi” (film del 1986, regia di Martin Scorsese, con Paul Newman nei panni di Eddie “lo svelto” e Tom Cruise in quelli di Vincent Lauria). Chi è Trump e chi è Biden? E chi vincerà? Dobbiamo seguire i soldi.

Money, soldi. Trump taglia i fondi alle città “anarchiche” governate dai democratici che hanno deciso di ridurre i fondi alla polizia. Cinque pagine di istruzioni del presidente all’ufficio del budget federale per avviare i tagli e naturalmente la pubblicazione dell’elenco delle città inadempienti ai quali l’amministrazione taglierà i fondi. Non è difficile immaginare chi sarà colpito, si citano Washington, Portland, Seattle, tutte a guida dem e con problemi di sicurezza da mesi. E naturalmente la regina delle città in progress, New York.

La sfida di Andrew Cuomo

Money, soldi. Andrew Cuomo, il governatore di New York, l’ha messa giù piatta, nel suo stile che rivaleggia con quello di Trump per bon ton: “Trump non può avere abbastanza guardie del corpo per passeggiare nelle strade di New York, meglio che abbia un esercito. I newyorchesi non vogliono avere nulla a che fare con lui”. Cuomo è fatto così, non è uno che va per il sottile, disse a suo tempo che avrebbe mandato via il coronavirus “a calci in culo” e così vorrebbe fare con Trump perché “New York l’ha rifiutato” e vai con una serie di carezze a The Donald, un rosario che va da “clown” a “fumetto da tabloid”.

Naturalmente per i dem si tratta di un altro colpo basso di Trump (lo è, ma tutti stanno mirando sotto la cintola) e dunque Cuomo dice che il taglio dei fondi federali per la polizia è una “mossa politica, ingiustificata e illegale” e naturalmente “un altro tentativo di uccidere New York”. Come sono lontani i tempi in cui lo stesso Cuomo elogiava la risposta della Casa Bianca al coronavirus. Tutto dimenticato. Tutto perdonato. Si vota, vince (forse) chi picchia più duro.

Lo spartito di Joe Biden

Follow the Money, segui i soldi vale anche per Joe Biden che ha bisogno di un’invenzione per spostare il focus della campagna su un altro tema, perché quello della sicurezza, della criminalità e delle rivolte rischia di far deragliare la campagna dem e annullare il vantaggio che ha ancora nei confronti di Trump. E allora anche Joe è seduto davanti al board game del Monopoly e gioca a “dove sono i soldi?”. Guarda Trump e li trovi… nella sua dichiarazione dei redditi. Che gli americani non conoscono. Vecchio cavallo di battaglia, ha sempre corso a vuoto. Ma Biden deve cambiare spartito, uscire dalla guerriglia urbana per scagliare Trump nel rovo del fisco americano.

“Ho rilasciato 21 anni di dichiarazioni dei redditi. Trump, cosa stai nascondendo?”, twitta Biden. Debole, il suo unico punto di forza è sempre la crisi del coronavirus, un’incognita sul futuro (l’economia per ora soffia a favore di Trump), ma almeno è un argomento che pesa sul serio, guardare dentro il portafoglio dell’uomo ricco al potere.

Si combatte su tutto e si affilano le armi per il dibattito tra i due candidati. Se mai ci sarà un dibattito, perché Nancy Pelosi l’ha ufficialmente sconsigliato, Biden naturalmente lo ha confermato. E ormai circolano battute e teorie cospiratorie sul duello. Trump si porta avanti. Come?

La scelta dei moderatori nei dibattiti

La Commissione sui dibattiti presidenziali non ha fatto in tempo ad annunciare i moderatori (ieri) che Donald Trump se li sta già “lavorando”. Chris Wallace di Fox News, Steve Scully di C-Span e Kristen Welker di Nbc saranno gli arbitri dei 3 confronti tra The Donald e Joe Biden mentre Susan Page, di Usa Today, condurrà il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, Mike Pence e Kamala Harris. Tutti veterani del giornalismo e con una reputazione immacolata.

The Donald non la pensa così: “Non sono i moderatori che avremmo raccomandato se ci fosse stato consentito un input”, ha lestamente commentato Tim Murtaugh, direttore della comunicazione per la campagna di Trump. Tattica. “Alcuni possono essere identificati come chiari oppositori del presidente Trump, cioè a dire che Joe Biden di fatto avrà un compagno di squadra sul podio che per buona parte del tempo lo aiuterà a giustificare l’agenda radicale, di sinistra, che sta portando avanti”, aggiunge. Come funziona la selezione dei moderatori? La Commissione sui dibattiti presidenziali sceglie i moderatori sulla base di 3 parametri:

A) dimestichezza con i candidati e con le principali questioni della campagna presidenziale;  
B) vasta esperienza nella trasmissione di news in diretta tv;
C) consapevolezza del fatto che il dibattito debba dedicare il massimo del tempo e dell’attenzione ai candidati e ai loro punti di vista.

Trump conosce bene queste regole, così come gli organizzatori della sua campagna. Ma gioca d’anticipo, fa aleggiare il sospetto di un dibattito con la stangata (“The Sting”, 1973, grande film su una sala corsa finta, con una coppia di magnifici, Pawl Newman e Robert Redford, colonna sonora di brani ragtime arrangiati in maniera deliziosa da Marvin Hamlisch), alimenta un (pre)giudizio che gli serve in vista del dibattito perché i moderatori, così come i loro network, a questo punto di fronte a un’esternazione che li definisce di parte, faranno di tutto per dimostrare la loro imparzialità, perfino concedendo qualche assist pur di non farsi accusare di aver sabotato il dibattito. Comunque vada, per Trump sarà un successo, attaccare i media funziona sempre con i suoi sostenitori. Lo aveva già fatto nel 2016, dopo tutti e tre i dibattiti con la sfidante dem di allora, Hillary Clinton.

Due Americhe in rotta di collisione

L’America è sempre Paradiso e Inferno (il libro di Robert Kagan declina la terra degli opposti in un più soft “Paradiso e Potere”, ma di quello si parla), preludio di una sinfonia e titolo di coda di un noir, anticipazione e finale di una saga. Guardare cosa accade negli Stati Uniti e quali forze si muovono intorno alla cavalcata di questa straordinaria nazione (nel bene e nel male, dunque nel Paradiso e nell’Inferno) aiuta a orientarsi. Il suo esito, il 3 novembre (e forse non lo conosceremo neppure in quella data, ma oltre, a causa dei tempi dello spoglio del voto per posta che s’annuncia massiccio e pieno di botole) non è lo spartiacque di una presidenza, non è un nome sul taccuino del cronista, ma il racconto dell’opera in fieri dell’Occidente di cui l’America è centro e avamposto.

I bagliori sono visibili, la separazione dei mondi non è solo un tema delle due Americhe che sono in rotta di collisione, l’immagine del “doppio” americano, nel “Trump Ruralis” e nel “Biden Metropolitanus”. La frantumazione comincia sempre dall’anima, dai rapporti intimi, dal personale che si catapulta nel collettivo. Sono tutti segnali a bassa intensità che raccontano lo scenario del paese. Senza il contesto, fare previsioni sulle elezioni è impresa da stunt-man che ha dimenticato a casa l’elmetto. Il tasso di divorzio negli Stati Uniti nel periodo da marzo a giugno è aumentato del 34% rispetto all’anno prima. Stare insieme in casa per molti mesi, o lontani in luoghi diversi dove si coltivava l’illusione della relazione su Zoom, una realtà aumentata che il “dopo” ha svelato come un inganno, il “new normal” della vita a distanza, ha rivelato il falso, l’alterato, il corrotto. E la coppia alla fine scoppia.

È la realtà urlante, il quadro di Edvard Munch che rappresenta l’inquietudine della modernità, un “Alone Together” (importante libro di Sherry Turkle sul mondo delle relazioni digitali, un insieme di devastante solitudine e alienazione dalla vita quotidiana) che emerge dai dati raccolti dalla società Legal Templates, citati da Fox News. Parlano i documenti dei divorzi: il 31% delle coppie ha ammesso che il lockdown ha causato danni irreparabili al rapporto con il convivente.

Qualcuno può sorridere, l’elezione non è tema da divorzisti, piatti e patti rotti, patrimonio e matrimonio, ma il coronavirus ha distrutto ciò che era già sfasciato, piegato, accartocciato dall’insincera biografia interiore, dallo squilibrio del carattere, dall’incapacità di “vedere l’altro” nella sua interezza, forza e fragilità. C’erano tutti i segni dello sgretolamento, della dissipazione e dello smarrimento. Il cuore è il motore anche della politica.

Il Covid ha aumentato il dissidio

Il paesaggio americano suggerisce visioni, immagini, parole. Le città tentacolari lumeggiate da Edgar Allan Poe, “L’incubo ad aria condizionata” sfrangiato da Henry Miller, la New York cantata da John Dos Passos in “Manhattan Transfer”, sono un’immensa solitudine. I ricchi sono migrati verso le ville negli Hamptons, di fronte all’oceano, nella Grande Mela il crimine va a caccia di giorno e di notte. Sparatorie e omicidi sono in aumento a New York in agosto, 2242 incidenti con armi da fuoco, sono morte 53 persone (nel 2019 i morti furono 36 in 91 scontri armati), un balzo del 166% delle sparatorie e del 47% degli omicidi. Il partito del “defunding police”, che propone il taglio dei fondi della polizia, di fronte questi numeri dovrebbe interrogarsi sul messaggio che lascia nell’immaginario degli elettori, perché i ricchi la sicurezza possono comprarla, ma i poveri la pagano con la violenza crescente. Eccola, la campagna presidenziale, la dimensione della lotta politica, l’eterna lotta per conquistare il cuore e la mente del popolo. Ieri Trump a Kenosha, oggi Biden a Kenosha. L’America bianca e l’America nera.

Il coronavirus ha aumentato il dissidio, alimentato il conflitto, innalzato i decibel di un dibattito a mano armata e penna intinta nell’inchiostro del rancore. L’economia del coronavirus lascia segni pesanti per tutti. Si fa presto a dire Trump, la nazione della denutrizione, della povertà, della mano armata non è un colpo di vento improvviso, c’era anche con Obama, è rimasta dopo otto anni di Obama. Nessun presidente è mai riuscito a riformare il secondo emendamento sul diritto di portare armi, va ricordato. Trump non è arrivato per caso, guardare al passato aiuta a capire perché c’è questo presente che agli occhi di un europeo appare distopico.

Il fattore Cibo

Una famiglia su otto in America ha problemi con il cibo, scrive il New York Times. Sicurezza alimentare, un tema sottovalutato, una dimensione sottomarina dello scenario. Nell’economia del coronavirus a un certo punto si è pensato che la catena di produzione e distribuzione alimentare fosse a rischio (e lo è stata). Una delle grandi catene di burger, Wendy’s, ha dovuto spiegare perché non c’era la carne (usando un suo slogan vincente del 1984: “Where is the beef?”), un grande scrittore come Stephen King ha confessato di esser stato colto dall’inquietudine sinistra, la sensazione di una imminente fine delle scorte alimentari, la carestia.

Così ecco il cibo, la sua produzione, entrare nella partita elettorale, l’agricoltura e l’allevamento, il grande polmone dell’avventura americana, quest’anno riceveranno dall’amministrazione Trump aiuti per 37.2 miliardi dollari, un altro record. Ciclo di spesa per conquistare consenso? C’è anche questo, tutti i presidenti hanno usato l’arma del budget federale, dei sussidi. Si vota nei grandi Stati dei campi agricoli, distese infinite dove la mietitrebbia di Trump trionfò a sorpresa nel 2016, la distesa blu dei democratici divenne improvvisamente rossa… la scritta T-R-U-MP nei ranch e nei silos di cereali dell’Iowa, dell’Ohio, del Wisconsin. Fox New oggi dice che negli Stati in bilico, guida Biden. Su Fox News la cosa fa imbizzarrire Trump: “Fake News”, dice il presidente.

Che cosa dicono alla Fox? Che “Sleepy Joe” è inn vantaggio in Arizona (49% a 40%), North Carolina (50% a 46%) e Wisconsin (50% a 42%). Apriti cielo, “prendete un nuovo sondaggista. Io credo che siamo in testa alla grande!”. Il timore dei dem è che il 2020 stia seminando sui campi un altro 2016.

“Follow the money”, segui i soldi. Sono quelli che servono per far marciare la campagna presidenziale, il coronavirus ha messo i cavalli di frisia, ha tracciato un fossato tra l’elettore e il candidato, distanza e mascherina (per Trump poca distanza e zero mascherina), la via per saldare questa faglia è la pubblicità elettorale: la campagna di Biden ha raccolto 365 milioni di dollari in agosto, un altro record, un mai visto prima, è l’effetto del forcing dei candidati per riempire gli spazi virtuali nell’etere, nel cavo, nella rete. Trump in luglio aveva raccolto 165 milioni di dollari, Barack Obama nel settembre del 2008 aveva incassato 193 milioni di dollari. Manca il dato della raccolta della campagna di Trump in agosto. È la corsa dei dragster della finanza elettorale, il carburante per arrivare al traguardo il 3 novembre.

La ripresa non è a V

Soldi, lavoro, reddito. Durante la pandemia 40 milioni di americani si sono iscritti alle liste per ricevere il sussidio di disoccupazione, la Grande Crisi, l’evaporazione dell’America Dream, fine del sogno, si chiude il sipario. Nell’ultimo fine settimana le iscrizioni sono sotto il milione, a quota 881 mila, un segnale di ripresa dell’economia e del mercato del lavoro (ma il dato va preso con cautela, c’è anche l’impatto di un nuovo metodo di calcolo), un altro strappo provocato dal coronavirus che si sta ricucendo. Ma con fatica, perché la ripresa non è a V (qui le scuole di pensiero si dividono, Barry Ritholz su Bloomberg ha scritto: “La lettera K è diventata più popolare”,  le due linee sono la divergenza tra “quelli che hanno beneficiato della pandemia e tutti gli altri”) e la scommessa di Wall Street sul futuro è sempre un’incognita, dopo aver frantumato tutti i record, il Nasdaq è andato sotto del 5%, tutti i big del settore tecnologico perdono terreno, gli analisti dicono che c’è aria di una correzione del mercato, Bank Of America prevede un calo dell’indice S&P 500 a 3250 punti  (mentre scriviamo è a quota 3484 punti) per la fine dell’anno. Andrà così? Non lo sappiamo, siamo in una terra incognita, non c’è una mappa.  

Il coronavirus è una dimensione da montagna russa, crollo, reazione, debito pubblico, spesa, ipoteca sul domani.

Tuoni e lampi dal futuro: l’anno prossimo, per la prima volta dal dopoguerra, il debito pubblico americano supererà l’intera produzione annua, il debito balzerà oltre il 100% del Prodotto interno lordo. Quest’anno il rapporto si fermerà al 98%, sempre un record assoluto. Gli Stati Uniti entrano nel club dove sono iscritti paesi come l’Italia, la Grecia e il Giappone. Un altro segno dei tempi. L’ultima volta che accadde, correva l’anno 1946, il debito schizzò al 106% del Pil, ma l’America aveva finanziato un’impresa chiamata Seconda guerra mondiale, era il prezzo della vittoria, della liberazione dell’Europa e della fine del conflitto nel Pacifico con il Giappone imperiale. Un altro tempo, un’altra era, un altro nemico, forse anche un altro mondo, ma si chiama sempre America.

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Fonte: estero agi


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