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America 2020: Biden, il negoziato con il Gop e il rebus Trump

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AGI – Washington democratica festeggia la vittoria mentre quella repubblicana pensa al domani. La gioia degli elettori dem è giusto un lampo di piazza in un pomeriggio solare della Capitale. È l’istante in cui le celebrazioni fanno titolo e finiscono in tipografia, la retorica sul Biden indistruttibile (fino a ieri lo dipingevano come una foglia cadente), il sorriso di Kamala Harris speso come materiale da programma politico, le lacrime di Cnn che non fanno più notizia, i clacson intorno alla Casa Bianca e “fuck you Trump” sparata dai rapper su altoparlanti con bassi che sfondano i muri. The Donald al tappeto, Joe Biden 46° presidente degli Stati Uniti, Kamala Harris prima donna nera alla vicepresidenza della Casa Bianca. Enjoy.

“A win is a win”

L’era Trump, intensa e da capogiro, labirintite politica. Quattro anni di attesa. E la grande paura di non farcela. Perché Trump ha fatto il matto (e lo farà ancora), ruggirà sempre come prima, ma gli mancano gli artigli della presidenza. Dunque questo è il momento di godersi Biden presidente, un’orgia, la liberazione dal phonato di Manhattan. Non c’è stata l’onda blu, ma su qualunque tavolo da gioco “a win is a win”, una vittoria è una vittoria. Rocambolesca, pandemica, con il voto postale di massa, ma vittoria è. Dunque a Washington è l’ora della fiesta. Ma non della siesta, perché il tempo non è solo galantuomo, è inesorabile.
L’altra Washington, quella dei lobbisti di K Street, quella di chi conosce il vai e vieni della Camera e del Senato, la Corporate America, quel mondo che ha tutti i numeri di telefono che servono per aprire porte e chiudere negoziati, quell’America ha in mente altro. Cosa? La composizione dell’amministrazione Biden e il suo rapporto con il Congresso. Perché Biden deve trovare un equilibrio tra i desideri delle anime democratiche e la realtà quotidiana di Washington. La festa è il flash di una sera, il domani bussa alla porta della camera da letto di Casa Biden. Toglie il sonno. E non a caso Biden nel discorso della vittoria ieri ha detto che “i cittadini “vogliono che collaboriamo nel loro interesse, e questa è la scelta che farò”. Tutto vero, sacrosanto, giusto, saggio, “bideniano”. Il passato? Hanno vinto, tutto è perdonato, tutto è dimenticato. 

La spina nel fianco del Senato

Cosa c’è nell’agenda del Presidente? Vediamola. Primo punto, il Senato. Al comando ci sarà ancora “Mitch the Knife”, il capogruppo repubblicano Mitch McConnell, un osso durissimo. I dem neanche a questo giro sono riusciti a conquistare la maggioranza, sperano di prendere il controllo nei ballottaggi di gennaio in Georgia (ma non è un calcolo automatico, bisogna vincerli), dunque per oggi e forse anche per domani dovranno trattare con chi comanda alla Camera Alta, ancora lui, McConnell. Questo fatto è la premessa di ogni mossa di Biden che ha di fronte due scelte: negoziare con i repubblicani, oppure andare allo scontro. La prima scelta è da Biden, la seconda è il desiderio dell’ala radicale dei democratici. Ci saranno problemi, la linea politica di Nancy Pelosi e Chuck Schumer è uscita male dal voto, i numeri del Congresso dicono che la piattaforma progressista è una missione impossibile: l’aumento delle tasse, il Green New Deal (che stava per costare la sconfitta in Pennsylvania), l’idea di allargare il numero dei giudici della Corte Suprema (il “packing the Court”), sono tutte cose che resteranno a mezz’aria.
 Sono fatti che alimenteranno tensioni, l’ala sinistra del partito, quella di Bernie Sanders che ha fatto un patto con Biden (vale ancora?) vorrebbe premere il pulsante nucleare, consumare vendette, far scorrere il sangue dei trumpiani. I segni sono visibili sulla Rete, basta monitorare i tweet, ma la politica si fa trattando, soprattutto si fa usando il cervello, visto che i dem non hanno i numeri per far approvare la nomina al Senato dei ministri di Biden. Il presidente sa di essere in condizioni difficili in partenza, può migliorare, perfino prendere il Senato, ma deve tenere conto del fatto che McConnell può rendergli la vita impossibile, paralizzare la Casa Bianca per mesi. Ergo, Biden deve trovare un accordo prima di tutto con Mitch the Knife. I due si conoscono fin troppo bene, sono due vecchie volpi del Congresso. McConnell ha 78 anni (come Biden), è in politica da decenni (come Biden), la sua agenda è Washington. Tutta (come Biden). E come il democratico Biden dal Delaware, il repubblicano McConnell dal Kentucky sa che dovrà pattinare sul ghiaccio bollente: Trump. Il finale di partita di The Donald non è ancora scritto, non ha concesso la vittoria (e hanno taciuto anche i leader repubblicani, a cominciare da McConnell, dato da segnare sul taccuino), prepara la battaglia legale. Chi lo irride per questo, sbaglia, perché i ricorsi e i riconteggi sono previsti dalla legge (non valgono solo quando li chiedono i dem: Al Gore, anno 2000, Florida). Come ha ricordato il Wall Street Journal, “Trump ha il diritto di battersi in tribunale, ma deve provare che ci siano i brogli”. Non fa una piega.

Il fattore Donald

The Donald è la vera incognita per tutti, lo è per Biden (che non vede l’ora di trovare un modus vivendi e operandi con i repubblicani), lo è per McConnell (che non vede l’ora di traghettare il Gop verso qualcosa di stabile rispetto all’elettroshock continuo di Trump). Il problema è che Trump possiede una cosa che non si può ignorare: i voti. Ha perso, ma la sua fan base è enorme; ha perso, ma ha centrato il record di voti per un presidente in carica; ha perso, ma è uno strano sconfitto che resta in sella al movimento repubblicano. Trump è chiaramente nella fase di King Kong ferito, innamorato della Casa Bianca, l’ha vista passare tra le braccia di un altro pur avendo condotto una campagna incredibile per le condizioni in cui era partita (coronavirus, collasso dell’economia, proteste dei movimenti – cosa faranno ora?), è rimasto impallinato dal voto anticipato e da milioni di schede inviate per corrispondenza. Ora in queste condizioni si dibatte furiosamente, dunque non concede la vittoria (e nessuno francamente se lo aspettava), scatena la tempesta legale, si agita e rompe tutti i pezzi della cristalleria. Trump. Immaginate McConnell, deve sgambettare ogni volta Biden con un sorriso, poi ammansire The Donald e dire ai suoi senatori di votare questo e quello. Biden in questo bordello istituzionale è quello che rischia di rimetterci più di tutti. Non può governare a colpi di ordini esecutivi, ha bisogno delle leggi approvate dal Congresso. E delle nomine che passano veloci. Biden deve trattare. Se lo fa solo con McConnell non ce la fa, se chiama Trump, quello lo spiffera al mondo intero. Che dilemma.

L’apertura ai repubblicani

Sul taccuino del presidente americano emerge la frase del compagno Lenin: che fare? Secondo alcuni osservatori, Biden deve aprire il governo a esponenti vicini ai repubblicani, così romperebbe il fronte avversario, metterebbe in difficoltà Trump, darebbe forza a McConnell. Un centrista come lui potrebbe farlo. Barack Obama piazzò un nome come quello di  Robert Gates a ministro della Difesa, un repubblicano. Ora non sembra aria, i dem più a sinistra sarebbero capaci di chiedere l’impeachment di Joe per intelligenza con il nemico.

Altre idee per il varo in gennaio di un’amministrazione di nuovo conio? Il Tesoro e la Difesa non sono mai stati governati dalle donne, potrebbe essere la volta buona. Quello che Biden non può permettersi, è un governo condizionato dall’ala sinistra dei democratici, ma potrà essere – anzi, dovrà essere, per ragioni di propaganda – in Progress senza mai diventarlo, serve a dipingere un presidente cosmopolita, multilaterale, una presidenza che non esiste nella realtà (la politica estera in questa elezione presidenziale ha contato pochissimo e anche il tema della Cina è tutto ripiegato in chiave interna) ma piace agli europei, una figura che fa parte del bel mondo ed è accettata dalle cancellerie internazionali. Il rientro nell’accordo sul clima di Parigi fa parte di questa narrazione, il tocco di Green che serve dare un segnale di impegno ecologista, la ricucitura della gran rottura di Trump, il sarto Biden che rammenda tutto. Grane? Tante, sono tutte squadernate. Quella più grande è remota, silente, immanente: si chiama Cina. Xi Jinping giocherà al gatto con il topo la partita sui dazi (esistevano anche prima di Trump) e quella della barriera tecnologica ai cinesi (condivisa al Congresso anche dai democratici), della proprietà intellettuale (altro tema rovente), dell’acciaio (più dazi per tutti, anche in Europa), fino al rosso antico della bilancia commerciale che vale 300 miliardi di dollari all’anno. È la sfida per l’egemonia mondiale.

La lotta alla pandemia

Questo è il domani, mentre l’oggi sta rotolando a valle anche per Biden, vincere le elezioni era la parte più facile. Fino a ieri il coronavirus era un problema di Trump ed era facile (e comprensibile, c’erano le elezioni) scaricare addosso alla presidenza ogni responsabilità (in una nazione con 328 milioni di abitanti e 50 Stati che decidono in autonomia cosa fare), presto toccherà ai dem guardare in faccia la realtà. La “nazione rossa” dei repubblicani e democratici che non fa parte dell’apparato governativo non vuole i lockdown, il piccolo e medio business (che ha votato per Trump, anche quello delle minoranze) considera le chiusure più letali del virus. È un dato che si è visto nel voto. Il contagio aumenta, sta arrivando l’inverno, qual è il piano di Biden? Non si sa, ha detto di averne uno, gli americani lo aspettano e lo hanno votato anche per questo (e soprattutto in opposizione a Trump, un voto non per ma contro qualcosa). Il coronavirus ha regalato la vittoria a Biden, ma può essere il problema che fa subito sprofondare nella palude la nuova amministrazione. Qui a Washington la festa dura una sera, il pensiero è già proiettato in avanti, alle elezioni di Midterm, tra due anni si vota, altro giro, altra corsa, questa è una democrazia.

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Fonte: estero agi


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