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Ambiente e lavoro, due facce della stessa medaglia

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di Antonello Longo

direttore@quotidianocontribuenti.com

Siamo ormai nell’ultimo scorcio di legislatura. Dopo il ruzzolone dei referendum sulla giustizia, Draghi e il suo governo saranno impegnati, da qui alla fine dell’anno, in una lotta contro il tempo per definire il quadro delle riforme propedeutiche all’erogazione dei fondi per l’attuazione del Pnrr, mentre le forze politiche dell’eterogenea maggioranza sono pronte a lanciarsi nel pieno della  bagarre elettorale. Intanto il dibattito pubblico, a causa della crisi economica e pandemica, della guerra, dello spostamento a destra dell’asse politico italiano, fa passi indietro, soprattutto sul piano dei diritti, delle politiche sociali e della riconversione ecologica.

L’aumento indiscriminato dei costi dell’energia e delle materie prime e le paventate conseguenze della sanzioni contro la Russia, fornitrice di gas e petrolio, porta ormai a parlare della rinuncia al nucleare, del contenimento delle emissioni di CO2, della moratoria sulle ricerche di petrolio e di gas nel sottosuolo e nei mari italiani come di scelte scellerate, “ideologiche”, dando a questo termine un significato quasi spregiativo.

Eppure proprio la guerra in Europa e le sue conseguenze dovrebbero spingere le nazioni, piuttosto che alla corsa agli armamenti, ad affrettare i tempi della definitiva rinuncia ai combustibili fossili a favore delle fonti rinnovabili e di una generale riconversione degli apparati produttivi, degli stili di vita, dei modelli di sviluppo. Il primo impegno, in ordine logico e su scala globale, della politica, se vuole ricostruire un rapporto con le nuove generazioni, è la lotta all’abuso scellerato delle risorse naturali, cioè al modello economico che alimenta la distruzione ecologica, dall’abbattimento della foresta amazzonica alla discarica sotto casa.

A questa lotta, però, si lega strettamente quella contro lo sfruttamento del lavoro, nel senso che entrambi gli aspetti sono frutto di un’unica logica e della medesima cultura.

Quando parliamo del biosistema terrestre, da difendere, e degli equilibri della natura, da salvare, al centro del cosmo mettiamo, sempre, la persona umana, che ha diritto alla vita ed a viverla in salute e con dignità.

Non si può barattare la salute con il posto di lavoro, mettendo a rischio intere comunità. I sindacati dei lavoratori devono capirlo, una volta per tutte. Dal risanamento e dalla bonifica delle aree devastate dall’inquinamento possono nascere occasioni di lavoro cento volte maggiori che non dalle fabbriche del cancro.

Le parole sono pietre: si deve gridare che il lavoro è tale soltanto se gli vengono riconosciuti dignità e diritti, pertanto lottare per il lavoro equivale a pretendere la riconversione ecologica degli apparati industriali, la chiusura (sì, chiusura e smantellamento, senza se e senza ma) delle attività inquinanti avviando la conseguente (gigantesca) opera di bonifica e risanamento dei siti, la messa in sicurezza dei territori, con un grande piano di interventi pubblici e privati per il risanamento, per la restituzione dei territori devastati alle loro reali vocazioni economiche, agricoltura e turismo in primo luogo, ma non solo.

E si deve gridare che il comparto della pubblica amministrazione, al centro e nei livelli territoriali, non può essere ancora lasciato alla deriva. Il principio di sussidiarietà non significa mettere tutto in mano ai privati, poiché questo è il processo in atto dietro il mantra della concorrenza e del mercato, a partire dai servizi pubblici, dalle pensioni e dalla previdenza sociale, dalla gestione delle infrastrutture grandi e piccole.

Ora, non desidero parlare delle profonde trasformazioni subite dal concetto stesso di lavoro, che non è, beninteso, solo quello dipendente e a posto fisso, né del lavoro come fattore della produzione né delle regole del mercato del lavoro: lasciamo ai sociologi, agli economisti, ai giuslavoristi il loro lavoro. Ciò che mi preme cogliere, qui, è il senso politico di una battaglia per il lavoro, inteso come valore umano, democratico, costituzionale.

“Repubblica democratica fondata sul lavoro” non significa soltanto che l’economia deve tendere alla piena occupazione: vuol dire che, essendo il lavoro il fondamento della democraticità del sistema, quando strutturalmente per decenni i livelli percentuali di disoccupazione si mantengono attorno alle due cifre, come avviene, con grandi disuguaglianze tra Nord e Sud, in Italia, non si può parlare di piena attuazione del modello di democrazia che la Costituzione disegna. Insomma, quella per il lavoro è, in primo luogo, una grande battaglia democratica, che coinvolge l’intero sistema Paese ed il rapporto con la sovrastruttura comunitaria.

Ci sono lotte che sembrano antiche ma, sia pure adattandole alla nuova fase storica che stiamo vivendo, vanno affrontate con una nuova, più ferma, determinazione e chiarezza d’idee: occupazione senza diritti, precariato, contratti occasionali e a tempo, dismissioni e delocalizzazioni selvagge, scelta ricattatoria tra occupazione e salute: tutto questo non è lavoro, si chiama sfruttamento. Ed a crescere è solo l’accumulo di pochissimi, a danno di tutta la collettività e contro ogni idea di futuro, pubblico e privato, per le nuove generazioni. È su questi punti che si determina la frattura tra il popolo e la politica, la quale si palesa con tutta evidenza allorché più della metà del corpo elettorale rifiuta di recarsi alle urne.

Favorire la piena occupazione e salvaguardare i diritti legati al lavoro significa, oggi, ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e assicurare a chi lavora un livello di reddito adeguato alla media europea. Una politica al passo coi tempi deve cogliere il valore del “tempo libero” inteso sia come occasione, esso stesso, di nuove occupazioni, sia come condizione perché lavoratrici e lavoratori prendano parte al confronto democratico e alla gestione del sistema economico e sociale, così come imporrebbe la nostra Carta costituzionale (se venisse attuata).

E infine, la lotta per il lavoro non la si può chiudere né nel guscio italiano né in quello europeo: se è chiaro che occorre una trasformazione a livello del mercato globale, la conseguenza logica cui prestare attenzione è che si va estendendo sempre di più il divario, già enorme, tra i paesi “sviluppati” e quelli “in via di sviluppo” e qui va inserito, correttamente, tutto il discorso che riguarda le migrazioni. E ciò richiede una riflessione a parte, legata anche ai nuovi assetti geopolitici che la guerra in Ucraina potrà determinare.