Type to search

Alla giustizia italiana serve un Concilio Vaticano II

Share

Una rivoluzione che guardi ai cittadini, ai loro bisogni
Alberto Cisterna

Occorre un luogo di consiglio per la conciliazione. Per tornare a riflettere sul semplice fatto che quasi tutti i processi civili e penali che si celebrano ogni giorno riguardano casi minuti
Tra le pieghe delle riforme approntate dal ministro Cartabia e tra gli obiettivi del Pnrr sta lentamente erodendo spazi una profonda ristrutturazione della giustizia nel nostro paese. Persino l’emergenza pandemica sta spingendo in modo sostanziale perché il servizio giustizia assuma una collocazione, come dire, meno tolemaica e più periferica nel complesso sistema delle istituzioni democratiche. L’introduzione dell’improcedibilità in appello e in cassazione; la prevista, massiccia erosione delle pendenze entro tempi rapidi; l’iniezione di un numero senza precedenti di collaboratori dei giudici per smaltire pratiche; due anni di trasformazione dei tribunali e delle corti in “sentenzifici” vuoti dalle aule deserte; e, ora, le pagelle di valutazione stanno inesorabilmente sospingendo gli apparati di giustizia verso l’angolo chiaroscurale di una posizione meno austera e appagante. Qualcuno lamenta, addirittura, che si vogliano privare i giudici di quarti di nobiltà istituzionale assimilandoli a una qualunque pubblica amministrazione. Senza neanche considerare che un processo è per ciascun cittadino né più né meno che una pratica di cui attende il disbrigo al pari di una licenza o di una concessione.
Le riforme, e lo spirito laicizzante che le sospinge per la prima volta a ranghi serrati tra la politica, sembrano condannare le toghe a scendere dai piani alti della Repubblica e a dover far di conto con le drammatiche urgenze della nazione; urgenze che, sinora, erano state nei fatti sempre postergate rispetto alla primaria necessità di conservare integre le guarentigie della giurisdizione. Mancano migliaia di giudici rispetto alla domanda di giustizia, ma la geografia dei tribunali è intangibile e sperpera risorse; l’obbligatorietà dell’azione penale produce milioni di processi spesso inutili e bagatellari; le sentenze devono essere cesellate e, quindi, sono rade; i carichi di lavoro non possono compromettere i riti e le movenze di liturgie processuali spesso barocche. Tutto questo prevale e precede ogni altra istanza o necessità, perché ciò che conta è piuttosto l’immutabilità e l’intangibilità dell’apparato ideologico che sorregge e giustifica la magistratura in Italia.
La giustizia avrebbe bisogno di un suo Concilio Vaticano II, di una rivoluzione che guardi ai “fedeli” e parli con essi per comprenderne le necessità e i bisogni. La Chiesa decise che l’officiante non avrebbe dato più le spalle ai credenti durante la celebrazione e che tutti gli altari sarebbero stati visibili e rivolti verso il popolo, costitutivo dell’Ecclesia e protagonista del mistero eucaristico. Un simbolo, ovvio, ma al pari la manifestazione tangibile di un cambiamento profondo.
È di questo guardare negli occhi i reali bisogni di giustizia della società, di questo mettere da parte qualche decennio di pulsioni mitologiche e autocelebrative che il dibattito, entro e fuori la magistratura, ha una necessità estrema.
Le discussioni sulla giustizia sono avvelenate da tre decenni dalla schizofrenia che tiene separate la declamazione astratta di principi che hanno al centro le istanze dei cittadini e la concreta conservazione iper-corporativa dello status quo. Al profilarsi di ogni progetto di riforma si alza la cortina fumogena dell’attacco all’indipendenza, della necessità di preservare l’autonomia; il tutto come un riflesso condizionato in risposta a una politica infida e complottista.
Per la giustizia è la conseguenza peso di anni di politiche miopi, predatorie, antagoniste per interessi personali ad aver inquinato i pozzi e a spingere anche il più tranquillo e pacato dei giudici a metter mano alla pistola se sente parlare di separazione delle carriere o di controllo sull’azione penale dei quali, in fondo, non gli importa granché, ma che considera costitutivi del proprio dna costituzionale. Occorrerebbe un Concilio. Un luogo di consiglio per la conciliazione. Per tornare a riflettere sul semplice fatto che quasi tutti, praticamente tutti, i processi civili e penali che si celebrano ogni giorno nelle aule di giustizia riguardano casi minuti, vicende importanti per i cittadini, talvolta vitali per loro, ma pressoché tutte saldamente al riparo da condizionamenti e pressioni di sorta. Ed esposte, invece, all’inefficienza o alla onerosità dei carichi.
Si è costruito un modello ideologico e culturale che rappresenta la cittadella giudiziaria come assediata ogni giorno da poteri forti, da politici intrallazzatori, da pervicaci depistatori. Che pur ci sono, come l’affaire Palamara e altro dimostrano, ma quei processi costituiscono un infinitesimo degli affari di giustizia e né questa autonomia né questa indipendenza hanno impedito nefandezze, anzi,
Invece importa ai cittadini sempre, quasi sempre, una giustizia minuta che dovrebbe essere rapida, efficiente, sobria, mite, capace di risolvere i mille affanni della vita o di valutare con serenità devianze e errori. È facile obiettare che, in tanto questo “servizio” può essere reso, in quanto esista un corpus giudiziario autonomo, qualificato, indipendente. In realtà non accade quasi da nessuna parte in Occidente, ma è innegabile che questo assetto giovi a meglio garantire gli utenti. Tuttavia, ha un costo enorme che rischia di diventare insopportabile. La qualità della giustizia negli Stati uniti, nel Regno unito, in Francia o in Germania è pessima se rapportata a quella italiana, ma nessuno in quei paesi si sogna di dire che pone un freno allo sviluppo economico e sociale di quelle nazioni o crea gabbie giustizialiste. Già solo l’aver imposto la questione giustizia tra gli obiettivi del Pnrr dovrebbe far comprendere che la rinascita del paese non può avvenire in queste condizioni e, soprattutto, dovrebbe indurre a mettere da parte la solita litania corporativa, visto anche lo schiaffo assestato dall’Europa. Occorre, quindi, accettare gli aggiustamenti che l’efficienza complessiva del servizio impone e di cui ancora si parla pochissimo, presi come si è dalla fretta di approvare la nuova legge per l’elezione del Csm. Nel mare di questo vasto programma di riforme, le pagelle di professionalità dei giudici sono un affluente del tutto secondario. Ammesso che mai funzioneranno, può anche darsi che saranno scritte sulla pelle di qualche magistrato colpito da un rating basso per i suoi insuccessi, ma il loro inchiostro rosso viene distillato dalla vita delle persone che subiscono ingiustizie, che vedono i loro diritti negati o finanche la loro libertà compromessa da qualche sprovveduto e superficiale. A quanti dicono che la pagella “frenerebbe” i pubblici ministeri o i giudici occorre ricordare che quei freni sono posti a tutela dei cittadini e che la carriera disturbata di qualche magistrato vale certo un’ingiustizia in meno.

Fonte: IL RIFORMISTA