di Alessandro Scuderi
Si deve risalire ai primi passi della rivoluzione popolare per capire come e perché la Cina ha sempre considerato l’Africa una “fertile” terra da colonizzare economicamente e militarmente. La possibilità di diffondere i principi della rivoluzione maoista, dall’anticolonialismo, rappresentavano una ghiotta occasione per solidarizzare con il Terzo Mondo), sino al punto di supportare, con armi e denaro, i nascenti movimenti di liberazione. Siamo agli inizi degli anni ’50…
I rapporti con il Continente Nero si cominciano a consolidare nei primi anni ’60 del secolo scorso, in occasione di un lungo e fruttuoso viaggio che il primo ministro cinese Zhou Enlai compie nel 1964, in ben dieci paesi africani. Fu nel corso di tale visita, certamente non disinteressata, che furono posti i presupposti dei futuri rapporti di collaborazione.
Nel corso dell’XI Congresso del Partito comunista cinese del 1977 (si consideri che Mao Tse Tung morì il 9 settembre 1976), stravolge radicalmente le priorità di politica interna ed estera della Cina. Le primitive convinzioni ideologiche della società e del partito iniziano a diradarsi progressivamente con il conseguenziale desiderio popolare di accedere ai benefici dello sviluppo economico globale, unita al forte desiderio di concessioni sulla libertà personale.
Sebbene si dovrà attendere l’inizio del nuovo millennio, per far si che il governo Cinese si impegni formalmente nel suo impegno politico, economico, l’imprenditoria statale, privilegiata nell’accesso al credito, ovviamente gestito dal governo, inizia progressivamente a spingersi oltre i confini nazionali; ed è qui che l’Africa diventa il primo continente destinatario degli investimenti industriali e commerciali.
Difatti è proprio nel 2000 che trova realizzazione il forum per la cooperazione Cina-Africa (Focac); viene così dato inizio ad un ciclo di determinazioni, al fine di stabilire e definire i comuni obiettivi politici, ma soprattutto economici. Circa 6 anni dopo, la Cina ritiene bene di pubblicare il “Libro bianco”, in realtà al fine di fugare dubbi e perplessità della Comunità Internazionale circa i fini, gli obiettivi e le attese che la superpotenza asiatica ripone sul continente nero; sulla carta dichiara di rafforzare e consolidare la dinamica gestionale delle relazioni con i paesi africani. In buona sostanza la Cina vuole ribadire che i propri interessi si basano su reciproci benefici, facendo apparire una relazione paritetica, lungi dall’interferire negli affari di politica interna. Niente di più falso.
Partiamo dal presupposto che il “point of view” dei diritti umani, circa la prospettiva cinese, vede gli stessi come un semplice sviluppo economico del singolo, ma non come conquista delle libertà individuali. Le debite ed opportune critiche occidentali sugli abusi cinesi imposti alle popolazioni autoctone, sono giudicate dalla diplomazia cinese come un tentativo di demonizzazione delle sue politiche di sviluppo in Africa. E difatti così è che si sta consumando, sotto gli occhi semichiusi di tutto l’occidente, la spoliazione post colonica dell’Africa.
L’intellighenzia cinese si sbraccia e si produce in acrobazie relazionali, e più squisitamente diplomatiche, affinché si rafforzi e si diffonda il ruolo di benefattrice dell’Africa, basando ciò su sedicenti principi di rispetto reciproco. Ma ecco che, puntuale come una cambiale, giunge del tutto scontata la condizione preliminare di Pechino, che impone ai paesi africani di riconoscere ed accettare il principio di “una sola Cina” e non anche di Taiwan; tale imposizione nasce dalla necessità di stabilire preliminarmente il riconoscimento dai fini meramente propagandistici, da sbandierare in sede ONU. La strategia cinese è stata talmente efficace che solo un paese del continente, lo Swatini (Swaziland), riconosce la sovranità di Taiwan piuttosto che quella della Repubblica Popolare.
Una vera e propria “conditio sine qua non” che impone ai governanti africani di astenersi da qualsivoglia critica, delle scelte politiche cinesi, ma anche che vieta loro di porsi ad ostacolo nei metodi di realizzazione degli investimenti nei loro Paesi. Ma vi è anche un secondo, non meno importante fine, ovvero sottrarsi ai frequenti interventi di risoluzione nelle complesse ed articolate crisi politiche africane.
La costante e assetata necessità cinese di succhiare le risorse naturali dell’Africa ha permesso solo a pochi di beneficiare di ciò. Sebbene le infrastrutture sorte dalle relazioni sino-africane si sono sviluppate alquanto, ha arricchito solo momentaneamente taluni governanti o dittatori del luogo. Si pensi che nell’arco di dieci anni, gli scambi commerciali sono passati dai 20 miliardi di USD del 2003 ai 200 miliardi del 2012, consentendo un tasso di crescita annuale del 16%. Vero è che solo nel corso del 2014/2015, le importazioni africane dalla Cina sono giunte a 93 miliardi di USD; le importazioni cinesi dall’Africa hanno superato 200 miliardi di USD.
Naturalmente Pechino considera il valore delle merci scambiate con il continente africano, non ancora congruo; infatti è pari al 5,1% dell’interscambio commerciale cinese con il resto del mondo. Il frazionamento del volume degli scambi indica che le attività commerciali in terra d’Africa sono concentrate in pochi paesi africani, rispetto a quelli che fossero i programmi cinesi. Solitamente oltre il 50% delle merci esportate è destinata in soli quattro paesi: Sudafrica (21%), Nigeria (12%), Egitto (11%) e Algeria (7%).
Il valore delle importazioni, circa l’87%, è convogliato in cinque paesi contraddistinti da un deciso orientamento verso l’esportazione di petrolio, gas naturale e minerali; e più precisamente: Sudafrica (42%), Angola (32%), Libia (6%), Repubblica del Congo (4%) e Repubblica Democratica del Congo (3%).
A far data dal 2012 ad oggi, le importazioni cinesi dall’Africa si attestano al 64% circa di petrolio, al 22% di minerali ed all’8% di manufatti; da ciò si evince l’interesse cinese allo sfruttamento delle risorse naturali. L’Africa rifornisce la Cina con 1,5/2 milioni di barili di greggio al giorno. L’oro nero è estratto per metà dall’Angola, ovvero il 24% delle importazioni totali.
Ciò che, invece, la Cina esporta in Africa, sono macchinari vari, attrezzature per il trasporto pari al 38%, manufatti per un totale del 30%, e poi tessuti per un valore di circa il 25% e prodotti chimici per il 5%. Se i primi sono legati alla forte presenza di imprese cinesi nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture, gli altri manufatti – particolarmente i prodotti tessili – sono adatti a soddisfare a prezzi accessibili la domanda della popolazione locale.
Appare dunque chiaro che per l’Africa, la Repubblica Popolare Cinese è il primo partner per interscambio commerciale. Secondo uno studio del McKinsey Global Institute del giugno 2017 , paesi come Etiopia, Sudafrica, Kenya, Nigeria, Tanzania, Angola e Zambia sono tra i principali partner della Cina in Africa.
L’importante documento asserisce che l’Africa, complessivamente, stia beneficiando della presenza cinese a livello economico, ma ciò non evita che in particolari aree del continente si verificano sempre più spesso problemi di convivenza. Tali problematiche si accentuano con l’incapacità cinese di integrarsi in una cultura ed una storia che fondamentalmente disprezzano per la scarsa coscienza del lavoro e della ricerca; una sorta di razzismo sociale che spesso sconfina in quello biologico. Invece la popolazione indigena ha a cuore il proprio habitat e critica quelle infrastrutture che inevitabilmente deturpano il meraviglioso ambiente africano. A ciò si aggiunga lo scarso coinvolgimento (se non totalmente indifferente) delle imprese locali, alle più che fondate accuse di land grabbing, che possiamo tradurre come “accaparramento della terra”.
Da qui nasce la necessità di far giungere truppe cinesi in Africa, senza sollevare polveroni e senza “rumore diplomatico”; e così la Cina ha colto subito la palla al balzo quando, in sede ONU, si è deciso di inviare truppe in Africa. La presenza militare cinese in Africa, infatti, si attua soprattutto tramite le missioni di “peacekeeping”. La Repubblica Popolare è la prima tra i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per unità impiegate (2.519, di cui oltre 1000 in Sudan e seconda in assoluto dopo gli U.S.A. per finanziamenti alle operazioni.
Appena un anno addietro, Pechino ha intensificato la propria presenza grigioverde nell’ambito delle missioni di pace, inserendo altre 8000 unità in supporto al servizio di una stand-by force delle missioni. E’ apparso chiaro sin da subito che il pretesto è stato l’assist per un invio più che sproporzionato, rispetto alle esigenze territoriali dell’ONU, e che invece il vero obiettivo cinese fosse quello di integrare il già corposo contingente militare sul posto. Tale scelta, infatti, non è dipesa dalla autentica volontà di contribuire alla pace nel mondo, ma quella necessaria a tutelare con la forza, ove necessiti, i propri interessi, alla luce degli attriti sempre più diffusi, di cui accennavo sopra. L’intento precipuo di Pechino è quello di “formare” e “forgiare” il carattere dei soldati che non sono mai stati coinvolti in combattimenti reali. L’esperienza sul campo servirà proprio a questo.
Nel giugno 2013, la Cina ha accettato di impegnare truppe nell’operazione di pace in Mali. Per la prima volta nella sua storia, la Cina ha incluso truppe di combattimento in seno al proprio contingente, che insieme a forze di polizia, personale medico e reparti del genio, costituiscono un’unità completa per le operazioni di mantenimento della pace in un contesto internazionale.
Ma non è un caso che l’inaugurazione della nuova base militare cinese a Gibuti, nel novembre 2017, sia stata vista di malo occhio sia dalla NATO (vedi base della Legione Straniera) che dagli U.S.A. Sulla carta, la “base di supporto strategico” cinese a Gibuti dovrebbe formalmente supportare le attività di antipirateria e peacekeeping ed antipirateria nel Corno d’Africa. Tuttavia, non sfugge a nessuno che vero compito assegnato al Comandante dell’avamposto, sia quello della protezione degli interessi di Pechino. Ma è anche evidente che anche la Cina vuole essere presente sul posto, alla stregua di altri Paesi come U.S.A., Francia, Giappone, Arabia Saudita e Italia. D’altronde, come già spiegato ed illustrato i più volte in altri miei interventi, tutti sanno cosa significhi monitorare le rotte commerciali marittime tra lo Stretto di Bab el-Mandab e il Canale di Suez.
A Gibuti, Pechino ha anche costruito il porto multiuso di Doraleh, nonché la nuova linea ferroviaria per collegare il paese all’Etiopia. Tutti questi sforzi sono stati sviluppati nell’ambito delle “nuove vie delle sete” che la Cina ha interesse abnorme a implementare, ponendo in rilievo la stretta correlazione tra l’esigenza securitaria e quella economica del gigante asiatico in Africa.
Ritengo più che probabile che Pechino potrà utilizzare il “modello Gibuti” delle sue prossime basi all’estero, come una sorta di apripista per il futuro sviluppo commerciale e no solo.
Prova ne è che Washington ha attivato lo “United States Command for Africa” (Africom) già dal 2008, per fornire la dovuta protezione ai paesi africani non in linea con i dictat cinesi. In verità, Trump vorrebbe ridurre la presenza militare U.S.A., ma la rilevanza strategica e la ormai sempre più radicata presenza cinese, renderà alquanto improbabile tale scelta. Probabilmente la Cina sceglierà l’Africa come base missilistica per lanciare i propri satelliti, ma se si possono lanciare satelliti, si potranno lanciare anche attacchi bellici.
Oltretutto, non può essere sottostimato il dato che vede la Cina come il secondo fornitore di armi dell’Africa, dopo la Russia e prima degli U.S.A.. Le esportazioni si concentrano, manco a dirlo, nel Nord Africa, in particolare verso Algeria, Tanzania, Marocco, Nigeria e Sudan. Nel quadriennio 2008-2012 ed in quello tra il 2013-2017, le forniture di armi sono aumentate del 55%. Tutte le agenzie di intelligence sono concordi nel constatare che tale incremento sia dovuto al “rapporto costo-efficacia” delle armi cinesi rispetto a quelle occidentali.
La strategia securitaria cinese in Africa, che poi tradotta a dovere e senza mezzi termini, sarebbe la strategia militare espansionistica, rappresenterà un ulteriore elemento di frizione con gli U.S.A. e su questo non vi è dubbio alcuno; il punto oscuro rimane la Russia di Putin che non può permettersi un altro impegno militare, oltre quello già in atto in Siria. A meno che non invia una flotta nel Golfo di Aden. E qui le cose si complicherebbero, perché se è vero che ho imparato a conoscere le strategie russe. Manderanno più sommergibili che unità di superficie…