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8 settembre 1943 – “Resa senza condizioni” – spacciata per “Armistizio”. (parte terza)

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di Arturo Lucchese

 

L’impatto della “resa senza condizioni”, pur se camuffata da “armistizio”, fu tremendo e s’ abbatté come un colpo di maglio sulla Nazione.

Le conseguenze furono oltremodo gravi e assunsero proporzioni inimmaginabili che, vale la pena ribadire, furono di gran lunga peggiori e disastrose di quelle causate dalla pesante disfatta di “Caporetto” del 24 ottobre 1917, di cui proprio Badoglio fu uno dei maggiori responsabili.

Anche nella sciagurata circostanza della “resa senza condizioni”, o “armistizio” che dir si voglia, circostanza gestita in maniera dilettantesca, l’insicurezza, l’attendismo, l’incapacità di assumere adeguati atteggiamenti di fermezza e di chiarezza, portarono Badoglio a fare poco e nulla per scrollarsi di dosso almeno quelle responsabilità non a lui direttamente imputabili  che, viceversa, erano da attribuire allo sprezzante e cinico atteggiamento degli Alleati, particolarmente da parte del Gen/le Eisenhower.

Nel convulso quadro delle tristissime giornate che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943, riassumendo e concludendo, la colpevolezza di Badoglio raggiunse lo zenit nel momento in cui non fu capace di valutare la situazione venutasi a creare di fatto a seguito del “golpe” del 25 luglio, predisponendo, quando ancora era possibile farlo, idonei piani operativi in funzione dell’ormai imminente sganciamento dai Tedeschi.

 

Circa un milione di uomini in armi (nei Balcani e in Grecia, nelle Isole del Dodecaneso, in Francia e in Corsica, in Sardegna e nel Nord Italia) fu abbandonato al loro destino, privi di chiare direttive e, in molti casi, all’oscuro di ciò che stava per accadere.

Nel corso delle affrettate trattative, portate avanti nelle sedi meno idonee e condotte da un militare non all’altezza del compito, non si tenne per nulla conto del fatto che si stava per porre in gioco la vita di centinaia di migliaia di militari e di civili.

 

E non si seppe neppure valutare a dovere l’importanza dell’apporto militare offerto dagli americani per impedire che la Capitale cadesse in mano tedesca e che, a tale scopo, avevano segretamente inviato a Roma due loro alti ufficiali.

L’offerta venne rifiutata, come si vedrà, per la codardia di Badoglio e dei suoi generali.

 

Si concretizzò un emblematico episodio di insipienza, frutto di quello che era il clima che in quei giorni caratterizzava l’apparato governativo e militare badogliano.

Esso vide protagonista il Gen. le Giacomo Carboni (ex Capo del S.I.M – servizio informazioni militari), comandante del “Corpo d’Armata Corazzato” dislocato attorno a Roma.  Dopo un lungo colloquio avuto con Badoglio, con incosciente disinvoltura, si assunse il compito di incontrare il Brigadiere Generale Taylor – vicecomandante della 82ª divisione aviotrasportata statunitense, in quel momento dislocata in Tunisia – e il Col. Gardner della USAF (United States Air Forze).

Giunti in incognito nella Capitale tra il 6 e 7 settembre, dopo un avventuroso viaggio in nave dall’isola di Ponza (ove erano stati condotti da un sommergibile) a Gaeta e in macchina sino a Roma, avevano l’incarico di concordare i piani per un eventuale intervento americano a fianco delle truppe italiane già attestate per la difesa della Capitale dai Tedeschi, in attesa che potesse giungere il grosso delle forze alleate.

Il Gen. le Carboni asserì, presumibilmente su indicazione di Badoglio, che le Unità Italiane di cui aveva il comando “non erano pronte al combattimento e mancavano di carburante e munizioni”.

Mentiva spudoratamente e tale infondata asserzione, poi personalmente confermata dallo stesso Badoglio, non convinse affatto gli interlocutori.  Il Gen. le Taylor, molto contrariato, nell’allontanarsi da palazzo Caprara, ove era avvenuto l’incontro, espresse al Col. Gardner il suo malumore pronunciando una lapidaria frase: – “it’s an awful jam (che tradotta in gergo italiano significa, testualmente, “…è un maledetto casino”).

 

Dopo il colloquio da essi avuto nella sede dello Stato Maggiore, Badoglio ricevette in ore notturne gli emissari di Eisenhower nella sua villa di Via Bruxelles. Si dice che, data l’ora, si fece addirittura trovare in vestaglia e non fece altro che confermare quanto già asserito dal Gen. le Carboni.

Divennero chiare le sue intenzioni che erano quelle di convincere gli Alleati a consentire una proroga per l’annuncio ufficiale del cosiddetto “armistizio corto”, già firmato dal suo plenipotenziario Gen. le Castellano.

La ristretta visione del quadro complessivo della situazione lo portava a fare di tutto, anche asserendo il falso, per prendere tempo. Pur se lo scopo avrebbe potuto essere ammissibile, onde cercare di rimediare, almeno in parte, al prezioso tempo perduto, il metodo adottato era senz’altro sbagliato e il risultato, totalmente negativo, non fece che innescare, com’è noto, pesanti ripercussioni.

 

Prima fra tutte la drastica conferma della data dell’8 settembre, testardamente imposta da Eisenhower, come già detto più per opportunistici motivi politici che per necessità strategiche.

Poi la grave decisione di annullare l’aviosbarco alleato (operazione “GIANT 2” che avrebbe dovuto essere condotta dalla 82° divisione paracadutisti del citato Gen. le Taylor) sugli aeroporti attorno a Roma (Furbara, Guidonia e Centocelle) e, infine, il reale pericolo di una eventuale ripetizione del bombardamento della Capitale.

 

È opportuno aggiungere che l’infelice conclusione della vicenda armistiziale, in malo modo condotta dall’inetta e sprovveduta compagine governativa di Badoglio, fece emergere il totale disinteresse per la sorte dell’incolpevole popolazione civile, sia da parte dei vertici istituzionali italiani che da parte dei futuri “cobelligeranti”.

Era più che pensabile, infatti, che, senza un sostanziale intervento protettivo, essa sarebbe andata incontro alle pesanti restrizioni dell’occupazione tedesca e ad eventuali indiscriminate rappresaglie!

 

Succube della riemergente “paura morale e fisica” e vieppiù allarmato per avere avuto notizia che i Tedeschi volevano “tagliargli la gola”, ripeté il copione di Caporetto.    Nella foga di porre in salvo sé stesso, non prese in considerazione la necessità di impartire opportune direttive, adottando le misure del caso, per tentare la doverosa quanto dignitosa difesa della Capitale.

 

In quei giorni si trovano schierate nello “hinterland” romano, a parte il già menzionato “Gruppo Corazzato” (divisioni “Ariete”, “Piave” e Centauro”), la Divisione “Granatieri di Sardegna”, le due “Costiere” di Anzio e Fiumicino, la “Piacenza” dislocata a Velletri.  Erano anche operativi alcuni reparti delle Divisioni “Lupi di Toscana” e “Re”, dopo il trasferimento da Tarvisio.

Una ingente forza (circa 60/mila uomini) che disponeva di validi mezzi corazzati, di reparti adeguatamente motorizzati e di un buon numero di artiglierie semoventi e anticarro.

Ove fosse stata tempestivamente e razionalmente impiegata, a fianco della offerta 82° divisione aviotrasportata statunitense del Gen. le Taylor e di concerto con l’apparato militare Alleato per la copertura aerea, quasi certamente avrebbe potuto essere in grado di proteggere la Capitale sino al successivo massiccio intervento dei “liberatori”.

A riprova di ciò sia l’“Oberkommand” (Comando Supremo tedesco) che il Feldmaresciallo Kesserling (Comandante del Gruppo “Forze Tedesche Centro Italia”, con sede a Frascati) – pur se intenzionati di procedere all’arresto “per tradimento” del Re e di Badoglio – per parecchio tempo rimasero nella convinzione che non fosse cosa facile occupare militarmente Roma.

 

I fatti dimostrano, come evidenziato, che non fu solo Badoglio a sbagliare (lui, essenzialmente lo fece per mancanza di coraggio) ma, vieppiù, sbagliò il Comando Alleato.   Oltretutto, in quel momento, i Tedeschi erano ancora disorientati, sia perché ignari del caos, della confusione e del disfattismo che si erano impadroniti dei palazzi istituzionali e dei Comandi militari italiani e sia perché ritenevano troppo arduo un attacco militare frontale verso Roma.

 

Tutto, invece, andò a rotoli, per i motivi prima rassegnati, e dai più alti gradi al semplice piantone tutti furono preda della frenesia di “squagliarsela al più presto”.

La sopraggiunta notizia della codarda fuga del Monarca e del Capo del Governo, ovviamente, non fece che accrescere lo sbandamento.

 

I “capoccia” reali e badogliani, da parte loro, dopo l’avventuroso viaggio lungo la “Tiburtina” e lungo le coste dell’Adriatico, erano giunti, come prima rassegnato, a Brindisi. La pavida congrega si diede subito da fare per mettere in piedi un surrogato di Capitale per il disastrato “Regno del Sud” (allora composto solo dalle Province di Lecce, Brindisi, Bari, Taranto e Foggia) e un “centro operativo” (la Caserma dei Sommergibilisti, nel porto di Brindisi) per l’improvvisato nuovo Governo, in gran parte costituito dagli stessi ambigui personaggi emersi dal caos del 25 luglio 1943.

 

Nel rifugio di Brindisi, Badoglio, “intellettualmente spento”, si muove con difficoltà, anche per l’insicurezza che deriva dall’ambiguo rapporto instauratosi con gli Alleati.

Si dedica all’ordinaria amministrazione e, tutto sommato, riesce ad assolvere talune funzioni politiche pur se la situazione gli impone compiti poco gradevoli come, ad esempio, la formalizzazione dell’“armistizio lungo”, contenente, fra l’altro, alcune vessatorie clausole aggiunte a sua insaputa e “con sotterfugio” dagli Alleati. Per tale incombenza, il 29 settembre, si dovette recare a Malta a bordo dell’incrociatore “Scipione l’Africano”.  Fu accolto con cordialità ma era chiaro che le buone maniere nei suoi confronti derivavano, più che altro, dalla posizione di supina accondiscendenza nei confronti della linea di condotta assunta dagli Alleati verso l’Italia.

 

Badoglio aveva accettato, quasi con rassegnazione, di apporre la propria firma su quel “diktat” reso particolarmente duro per espresso volere dell’Inghilterra di Churchill che disinvoltamente sosteneva la distorta visione della “deleta Italia”, confondendo l’avversione verso la dittatura fascista con una ingiustificabile forma di avversione verso il popolo italiano.  In base a tale arrogante mentalità, tipica del personaggio, pur se poche volte gli servì da aiuto nel contrastare le infamie del sanguinario” alleato” Stalin, pretendeva che l’Italia rinunciasse, per il presente e per il futuro, all’aspirazione di tornare a svolgere ruoli di primo piano nell’area del Mediterraneo, a suo intendere privilegiato “feudo” inglese.

 

Solo in funzione di questa ultima considerazione, Churchill si oppose acché le navi della ex flotta italiana, proditoriamente tolte alla sovranità italiana e assegnate alla Russia sovietica, navigassero in Mediterraneo con equipaggi russi e issando una bandiera con tanto di falce e martello.  In quell’occasione, opportunisticamente, ebbe a schierarsi a favore della presa di posizione del cosiddetto “Governo del Regno del Sud” che, una volta tanto, aveva usato parole forti e aveva minacciato, al verificarsi di una tale eventuale evenienza, di ordinare l’“autoaffondamento” delle navi che trovavasi internate, per la maggior parte, nella rada di La Valletta, a Malta.

 

In conclusione, dovette trascorrere oltre un anno e mezzo prima che avessero fine le sofferenze e le cruente vicissitudini della spietata guerra combattuta sul suolo italiano fra i violenti e talvolta inumani occupanti tedeschi e gli pseudo liberatori alleati.

Sofferenze e vicissitudini in gran misura innescate e acuite dal tragico periodo storico che va dal 25 luglio all’8 settembre 1943, i tristi 45 giorni che separano la caduta del fascismo dalla disavventura della “resa senza condizioni” imposta dai vincitori e supinamente convalidata dall’inqualificabile governo badogliano che all’epoca reggeva le sorti della disastrata Nazione Italia.