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10 giugno 1940: l’Italia entra in guerra

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Ricorre quest’anno l’82° anniversario della dichiarazione di guerra che segnò l’intervento diretto del nostro Paese nel secondo conflitto mondiale. Non sarebbe male, ancora oggi, trarre taluni sostanziali insegnamenti da quel lontano 10 giugno 1940, quando in malo modo fu avviato il “disastro annunciato” che portò l’Italia alla disfatta dell’8 settembre 1943 e alla “guerra civile” protrattasi sino al 25 aprile 1945

di Augusto Lucchese

Non è facile dire se è un bene o un male riportare alla memoria quella infausta data che, pur se apportatrice di lutti, distruzioni, privazioni, sofferenze, rimane tuttavia una pietra miliare della storia della Nazione.
Va ricordato, in ogni caso, che essa segnò l’apice dell’ingloriosa fine del controverso “ventennio” mussoliniano.
Nel bene e nel male gli accadimenti e gli insegnamenti della storia non vanno dimenticati o ignorati. Tantomeno vanno travisati o manipolati ad uso e consumo di parte.
Non va dimenticato, a tal proposito, che nel vasto campo dei diabolici guerrafondai di oggi, quasi nessuno rinuncia alla tracotanza e alla frenesia del potere egemonico, a prescindere da altre motivazioni più o meno valide o giustificative, e seguita ad affidare al violento e inumano uso delle armi l’ottenimento dei propri obiettivi.
La teoria di Giambattista Vigo sui “corsi e ricorsi storici” è sempre di grande attualità.
L’attuale disastroso scontro bellico fra Ucraina e Russia – per ragioni tutt’altro che chiare e accettabili, di natura parecchio recondita e ambigua …. per non dire altro – in aggiunta alle parecchie decine di altri cruenti, nefasti e brutali conflitti sparsi in tutto il maltrattato Pianeta, induce a pensare che l’umanità è pericolosamente avviata, ove non si ravveda a tempo debito, verso la china di una possibile autodistruzione.
Non sarebbe male, ancora oggi, trarre taluni sostanziali insegnamenti da quel lontano 10 giugno 1940, quando in malo modo fu avviato il “disastro annunciato” che portò l’Italia alla disfatta dell’8 settembre 1943 e alla “guerra civile” protrattasi sino al 25 aprile 1945.
Occorrerebbe interrogarsi, fra l’altro, sul se e sul come il popolo italiano abbia preso coscienza del fatto che una cosa è la retorica – più o meno veritiera e rispondente alla tangibilità delle cose – di chi sta al timone della “…nave sanza nocchiere in gran tempesta….” , e un’altra cosa, viceversa, è la realtà che si tenta di fuorviare, se non proprio di camuffare, con il consueto diluvio di bei discorsi e di buoni propositi al vento.

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Pubblichiamo uno stralcio dal libro “ENNA 1943 – Ricordi Guerra” di Augusto Lucchese (Boemi Editore, 2014)

10 giugno 1940. La dichiarazione di guerra

E giunse così anche il fatidico 10 giugno 1940 quando l’Italia fu avviata ad avventurarsi, pur in mancanza di una capace e idonea guida politica e militare, in quel conflitto che, a fronte di un’inverosimile parabola di errori e di palesi inefficienze, avrebbe portato la Nazione, a distanza di poco più di tre anni, alla nota, disastrosa, sconfitta militare.
Va detto, tuttavia, che nessuno, in quel momento, era in grado d’assumere posizioni di contrasto rispetto alla politica revanscista perseguita dal tronfio inquilino di Palazzo Venezia, in ossequio ai trattati stipulati con la Germania (“Asse Roma-Berlino” e “Patto d’acciaio”).

Quel 10 giugno era un lunedì radioso di sole e un po’ tutti assaporavamo le prime avvisaglie della stagione estiva che, si sa, ha sempre rappresentato per gli ennesi il periodo più bello dell’anno. Le scuole erano state chiuse con qualche giorno d’anticipo e, quindi, non era fuor di luogo nutrire la speranza di trascorrere qualche ora in più con gli amici, magari scorrazzando in lungo e in largo per le strade cittadine o ritrovandosi nel verdeggiante e rigoglioso parco della Villa Comunale, fra ombrosi viali e vialetti che, in leggero declivio e a spirale, attorniano la storica “torre di Federico”.
Al contrario, invece, come se tutto fosse già scritto in una sorta di lunario, le mie aspirazioni furono deluse e lo scorrere della giornata prese una piega ben diversa. Mio padre, ricordandomi l’impegno di provvedere al ritiro in legatoria di alcuni libri già pronti per la consegna, rivoluzionò ogni progetto. Fu giocoforza cambiare programma e, a quel punto, ritenni che la cosa migliore fosse quella di fare ricorso alla bici, la “piccola” e robusta “Legnano”.
Il laboratorio dell’anziano legatore, infatti, era nientemeno che in piazza Duomo, proprio a fianco del caseggiato ove allora era allocato il Gruppo femminile della G.I.L.
Detto fatto, m’avviai verso la meta.
Percorsa d’un fiato via Sant’Agata e superata piazza Vittorio Emanuele, affrontai la salita che porta verso Santa Chiara e la Chiesa Madre.
Raggiunta la legatoria, prelevai i libri, li sistemai in una borsa fissata al portabagagli e, assolta ogni altra incombenza, ripresi la strada di casa.
Il percorso, stavolta tutto in discesa, era parecchio più agevole.
Giunto nelle vicinanze della piazzetta Coppola, piccolo slargo adiacente la chiesa di San Giuseppe ove all’epoca risaltava la struttura adibita, sino al luglio del 1943, a “Casa del Fascio”, fui non poco sorpreso nell’udire le note dell’allora famosissimo “Inno a Roma”, ad alto volume diffuse da un paio di grigi altoparlanti a imbuto sporgenti dalle finestre dell’edificio prima citato. Il fatto, ovviamente, non poteva non stuzzicare la mia curiosità, sicché, spinto dalla voglia di saperne di più, frenai la bici e sostai ai margini della strada.
E mentre la voce dell’estemporaneo speaker seguitava a ripetere, con accentuata pronuncia dialettale, una sorta di laconico messaggio, presi a chiedere a dei passanti cosa stesse accadendo. Quasi con nonchalance, mi fu risposto che trattavasi dell’esortazione ad affluire, nel pomeriggio, in piazza Vittorio Emanuele, per ascoltare un importante messaggio che il Duce avrebbe indirizzato alla Nazione.
Un po’ tutti erano convinti che sarebbe stata annunciata la dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra. Un ineluttabile giro di boa, un fatto ormai scontato, quasi fosse segnato dal destino.
Risalito in sella, ripresi il cammino e, giunto a casa, appresi che anche la radio stava richiamando l’attenzione degli ascoltatori per sollecitarli a partecipare in massa alle “adunate” indette in tutta Italia. Mediante appositi impianti di amplificazione approntati nelle principali piazze delle città, dei paesi e delle borgate, il discorso del Duce sarebbe stato irradiato su tutto il territorio nazionale.
Sin dalle prime ore del pomeriggio, come poi riferito da stampa e radio, i luoghi delle “adunate” già brulicavano di gente, in attesa della parola ex cathedra del Capo Supremo d’Italia, mentre assordanti marce militari e inni fascisti contribuivano a creare un’atmosfera d’eccitazione e di suspense.
La puntuale radiocronaca dell’EIAR, del resto, riferiva ampiamente circa lo svolgersi delle “adunate oceaniche”, segnalando che piazza Venezia, in particolare, traboccava di persone. Fu possibile, successivamente, accertare attraverso le immagini profuse dai documentari dell’Istituto “LUCE” (una sorta di “tele-cinegiornale” dell’epoca), quanto quella notizia fosse assolutamente vera.
Tutti poterono constatare la consistenza di quella variopinta massa di gente assiepata nella piazza in attesa che “l’uomo della provvidenza” declamasse il suo annuncio.
Persino le vie adiacenti erano gremite di folla e dappertutto spiccavano divise d’ogni tipo, dalle camicie nere degli appartenenti al P.N.F. al grigio verde dei militari, dalla tetra orbace dei gerarchi alle curate uniformi degli Ufficiali del Regio Esercito e della Milizia. Ossequienti a quella “fede fascista” che fanaticamente li spronava a “credere, obbedire e combattere”, erano in molti a fare a gara nell’ostentare un’entusiastica partecipazione. Allo scoccare dell’ora solenne, Mussolini, con voce chiara e possente, adoperando la sua rinomata foga oratoria, pronunciò lo storico discorso che annunciava l’arrogante dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra.
Quel discorso non fu certo un invito a festa né, tanto meno, una formale comunicazione da prendere alla leggera. Nessuno, a prescindere dalla fuorviante atmosfera d’eccitazione collettiva, avrebbe potuto ragionevolmente ritenere che lo stato di guerra fosse un atto indolore, avulso da specifiche e imprevedibili conseguenze.
Sta di fatto che, nel corso di quella “oceanica” adunata di civili e militari (palesemente orchestrata), l’entusiasmo della gente aveva assunto toni da parossismo. Continue e prolungate acclamazioni interrompevano spesso la dura filippica mussoliniana fatta di pesanti invettive, di studiate pause, di frasi ad effetto.
Era ben facile dedurre come quella “strabocchevole” folla fosse del tutto soggiogata dalla forte personalità del dittatore e, per molti versi, sembrasse quasi gioiosa d’apprendere che la Nazione s’apprestava a scendere in guerra contro gli “odiati” avversari d’oltralpe e d’oltre Manica. Salvo poi a mettere in atto l’aduso principio tanto caro a molti (in particolare ai capoccia) dell’armiamoci e partite.

Che malinconia questi Italiani creduloni, facili a tribali entusiasmi, sempre inclini a seguire le orme di chi detiene il potere e di chi sembra essere il più forte del momento!
Tutto ciò è la dimostrazione di quanto la gente sia ben propensa a “scendere in piazza” quando c’è da inneggiare a Santi o padroni di turno mentre, di massima, si guarda bene dal partecipare ad assembramenti di protesta, specie quando, dietro l’angolo, la forza pubblica è pronta all’uso di manganelli e lacrimogeni.
Il tifo da stadio va bene, ma le rivendicazioni e le contestazioni è sempre meglio che siano gli altri a portarle avanti. Oggi è di moda lo sciopero generale, ma è tutta un’altra cosa. Esso diviene spesso una sorta di giro turistico cittadino, con programmi, percorsi e orari preventivamente concordati. I comizi dei maggiorenti, le invettive, gli urli rivendicatori, gli schiamazzi dei più facinorosi, lasciano il tempo che trovano e i risultati sono scarsi o nulli. In compenso, però, si respira un’aria da passeggiata scolastica con relativi panini imbottiti e bibite. Il tutto arricchito, talvolta, dall’esibizione di cantanti o di gruppi musicali politicamente impegnati. Quasi una scampagnata fuori porta. Viva la libertà.

Era opinione diffusa, del resto, che “il Duce”, nell’assumere la decisione di portare l’Italia a partecipare al conflitto, avesse vagliato attentamente la situazione.
A fronte della sua tanto decantata “infallibilità”, infatti, non era ipotizzabile una qualsivoglia negligenza o trascuratezza. Quella moltitudine, in ogni caso, non era il “pecorume” di cui alla sprezzante espressione coniata per l’occasione dall’ineffabile Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Un infelice termine che lo stesso avrà poi la sfrontatezza di riportare nelle sue inattendibili “memorie” vergate a fine conflitto. Molto più verosimilmente trattavasi di una variegata congerie di persone che, imbevute di pseudo orgoglio nazionale, miscelato con una abbondante dose di fanatismo, osannava “convintamente” al Duce. Per tal motivo è difficile rendersi conto del fatto che, a distanza di appena tre anni, la maggioranza di cotanta moltitudine sarebbe di colpo divenuta una scomposta massa di dichiarati “antifascisti”.
Che spettacolo miserevole questi Italiani tanto inclini a cambiare casacca e ad esternare, magari senza alcuna discontinuità temporale, astiosità e odiosità nei confronti di chi sino a poco prima era stato osannato e lodato!
Non va dimenticato, peraltro, che parecchi scalmanati, arruolatisi al momento nelle file degli estemporanei e animosi “antifascisti”, ebbero a compiere, talvolta ai limiti dell’ordinaria criminalità, una lunga serie d’incivili quanto inutili atti di vandalismo.
È facile essere violenti e pericolosi teppisti quando si è indisturbati o quando non si ha coscienza dei limiti entro cui anche la giusta protesta o l’ammissibile opposizione si deve muovere.

Per quanto concerne Enna, la cronaca di quel giorno ha posto in evidenza – qualcuno è ancora in grado di testimoniarlo – come, approssimandosi l’ora dell’appuntamento, l’animazione fosse alle stelle e piazza Vittorio Emanuele fosse gremita di gente.
Il collegamento radio con piazza Venezia era già in atto e un po’ tutti attendevano, quasi con trepidazione, che la tonante voce del Duce si facesse udire attraverso gli altoparlanti.
Chi, invece, aveva la fortuna – parecchio rara a quei tempi – di possedere una radio e non avesse l’obbligo di presentarsi in piazza, in divisa, s’era comodamente assiso, quasi in mistico raccoglimento, dinanzi all’apparecchio.
Per spiegare un così incoerente e strambo comportamento basta e avanza fare mente locale sulla diffusa quanto inveterata attitudine trasformistica e camaleontica degli Italiani.
Numerosi furono, altresì, coloro i quali, giunti alla svolta del 25 luglio 1943, ricorsero ad ogni sorta di camuffamento per nascondere o sminuire le ombre e le incongruenze del loro passato fascista, magari cercando di riciclarsi attraverso la sollecita adesione ai rinati partiti politici.
È noto, parimenti, che dopo l’infausto 8 settembre 1943 non tutti coloro i quali più o meno convintamente parteciparono alla pur meritoria e coraggiosa lotta partigiana, avevano le carte in regola.
Non è azzardato ritenere che se l’Italia, per mera ipotesi, avesse vinto la guerra, molti di costoro avrebbero continuato ad essere sfegatati “tifosi” del fascismo mussoliniano e chissà quanti avrebbero continuato ad indossare spavaldamente la camicia nera.
Il tutto in dispregio di quella linearità e trasparenza comportamentale che dovrebbe indurre chiunque a mantenere, in ogni circostanza, un coerente e dignitoso atteggiamento.