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Oro rosso di Puglia. Il traffico delle braccia vale milioni di euro

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Tra le sedici nuove misure cautelari anche la moglie dell’ex prefetto di Regio Calabria, Michele Di Bari, promosso al Viminale da Salvini dopo aver insabbiato la relazione del suo vice, Francesco Campolo, che nel gennaio 2017 definì Lucano «un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio»

di Cosimo Forina

È finita nella cronaca nazionale il prosieguo dell’operazione denominata “Principi e Caporali” ossia l’indagine sullo sfruttamento dei braccianti extracomunitari nella raccolta dell’oro rosso di Puglia, il pomodoro. Iniziata a luglio 2020 e conclusasi ad aprile scorso portò all’arresto di 10 persone.
Questa volta nell’operazione “Terra Rossa” (10 dicembre 2021) per violazione – a vario titolo – di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (603 bis c.p.) sono 16 le misure cautelari personali, 2 notificate in carcere, 3 arresti domiciliari e 11 sottoposti all’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria (art.282 Codice di procedura penale). Dieci le aziende agricole sottoposte a controllo giudiziario, introdotto con la legge 199/2016 ex art. 3, l’istituto in base al quale l’amministratore giudiziario affianca l’imprenditore nella gestione dell’azienda fino alla completa regolarizzazione di tutti i rapporti di lavoro intrattenuti ed alla rimozione di tutte le irregolarità riscontrate. I provvedimenti sono stati emessi dal gip Margherita Grippo dalla Procura della Repubblica di Foggia, le indagini sono state condotte dal Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Manfredonia e dal Nucleo Ispettorato del Lavoro di Foggia.
Gli sfruttati sono a decine, sempre loro: il popolo delle baracche abusive di Borgo Mezzanone a 45 chilometri da Manfredonia 15 da Foggia costretti a “vivere” in oltre 2.000 tra monnezza, prostituzione, precarie condizioni igienico-sanitarie e forte stato di bisogno nel ghetto sorto sull’ex pista dell’aeronautica militare ora dismessa.
I media, per questa seconda operazione dei Carabinieri contro il caporalato, si sono precipitati non per le braccia sfruttate con ingaggio a cottimo – vietato dalla legge – pagate cinque euro a cassone da riempire di pomodori (ben oltre i dieci quintali), mentre al caporale gambiano Bakary Saidy coadiuvato nelle illecite attività dal 32enne senegalese Bayo Kalifa dovevano essere corrisposti cinque euro per il trasporto e altri cinque per l’intermediazione con le aziende. Le indagini infatti hanno messo in luce difformità rispetto alla retribuzione stabilita dal CCNL e dalla tabella paga per gli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Foggia (solo 35 per 10 ore di lavoro, che diventavano 25 per i 5 euro versati per il trasporto e 5 per la intermediazione) e hanno svelato un giro di assegni per legittimare buste paga non veritiere in cui venivano indicate un numero di giornate lavorative inferiori a quelle realmente prestate dai lavoratori, a cui venivano scippati riposi e ferie spettanti, mancate visite mediche obbligatorie e mancata dotazione antinfortunistica.
La “notizia” che interessa i media è che tra i 16 provvedimenti notificati con l’obbligo di firma per sfruttamento dei lavoratori ci è finita anche tale imprenditrice agricola di Mattinata (Fg) Rosalba Livrerio Bisceglia la quale con le sorelle Antonella e Maria Cristina conduce l’azienda di famiglia (uliveti, frutteti, frantoi oleari, l’agriturismo «Giorgio»). Stando alle intercettazioni riportate nelle 118 pagine dell’ordinanza del gip sarebbe stata lei a trattare con i caporali e con Matteo Bisceglia «sorvegliante» dei campi, e ad occuparsi delle buste paga fasulle (Matteo Bisceglia lo dice al telefono con Saidy: «Guarda che delle buste paga si occupa la signora»).
La signora è la moglie del prefetto Michele Di Bari, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale (nominato da Salvini), in passato viceprefetto di Foggia, poi prefetto a Vibo Valentia, Modena e Reggio Calabria quando a finire nel tritacarne delle relazioni prefettizie fu Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, condannato nel processo “Xenia” a 13 anni e 2 mesi dal Tribunale di Locri per il modello/riferimento dell’accoglienza dei migranti. Dal Viminale Di Bari ha subito rassegnato le dimissioni, accettate dalla Ministra Luciana Lamorgese.
Nel “piatto ricco” della notizia ci si sono buttati tutti. Infatti i Tg a reti unificate nazionali e regionali hanno messo in risalto non solo l’indagata ma soprattutto il marito che nei cassetti della sua scrivania da prefetto custodiva la relazione del suo vice Francesco Campolo che, nel gennaio 2017, definì Lucano «un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio».
Rapporto, questo, bollato come “favoletta” e saltato fuori dopo le tante istanze e insistenze degli avvocati di Mimmo Lucano del tutto in controtendenza rispetto alle successive relazioni prefettizie finite all’attenzione del magistrato.
Un’occasione – quella offerta da questa indagine – per affrontare lo sfruttamento dei braccianti costretti a condizioni indicibili nonostante la nuova legge contro il lavoro nero in agricoltura concepita sia per garantire tutela e dignità dei lavoratori agricoli stranieri e italiani sia per rafforzare le misure a favore delle imprese agricole in regola.
Gli atti di criminalità persistono e a rimetterci sono sempre i più deboli. Come successo di recente nel tarantino – nel totale silenzio della stampa – dove un centinaio di braccianti extracomunitari si sono visti costretti a rivolgersi alla Cgil perché dopo un mese di lavoro sotto i tendoni da uva l’imprenditore ha deciso di non pagare nessuno. Ed ovviamente chi è senza documenti sa che perderà tutto.
Il traffico delle braccia in agricoltura vale milioni di euro e viene praticato dal sud al nord del paese. Braccianti che per lo più arrivano dal Burkina Faso, Mali, Costa D’Avorio, Ghana o dal Sudan, costretti a vivere di patimenti e di ricatti ancor più se sono irregolari. Te li ritrovi impegnati a Nardò (Le) nella raccolta delle angurie, caricati come bestie da soma in quindici-venti su furgoni senza finestrini, nella raccolta delle cipolle tra Margherita di Savoia, Zapponeta e Chieuti, nella raccolta di pomodori nel foggiano e in Basilicata e degli agrumi a Rosarno (Reggio Calabria), e ancora della patata novella a Cassibile (una frazione di Siracusa), e nel basso Lazio dove ad essere sfruttati sono più gli indiani. Risalendo lungo lo stivale li ritrovi tra i vigneti del chianti e per la raccolta delle mele nel Trentino.
Per gli «invisibili» tutto ha un costo: per essere portati sui campi dove spaccarsi la schiena dall’alba al tramonto spendono 5euro; per una tanica in plastica, contenitori di prodotti chimici agricoli, in cui poter tenere l’acqua da bere versano dai 3 ai 5euro; per ricaricare la batteria del telefonino dai 10 centesimi ad un euro; per una improvvisa corsa in ospedale dai 10 ai 15euro. L’unica legge è quella imposta dal caporale che paga 5euro a cassone pieno di pomodori per incassarne almeno 6 dall’agricoltore. Un giro di affari vertiginoso nella più totale illegalità.
Le dieci aziende sottoposte a controllo giudiziario hanno – come è stato accertato – un volume di affari di 5 milioni di euro annuo, sicuramente sufficiente per assunzioni e paghe regolari senza ricorrere ai caporali e mantenendo, nonostante le oscillazioni dei prezzi imposti dall’industria di trasformazione, un buon reddito e valore etico al proprio prodotto.
E tutto questo continua ad accadere mentre si è in attesa del processo di appello a Mimmo Lucano il quale così ha commentato alla testata del Manifesto l’operazione “Terra Rossa”: «Le mie critiche sono state sempre di natura politica e le sue dimissioni la dimostrazione che la luce si fa strada da sola». Ed ancora: «Troppi misteri si sono annidati nella Prefettura di Reggio quando a guidarla era Di Bari. Prima che lui arrivasse, Riace aveva avuto sempre rapporti molto stretti con la Prefettura perché era sempre disponibile ad accogliere a tutte le ore i migranti. Un filo diretto tra istituzione e seconda accoglienza che funzionava. Poi, con il cambio al vertice, tutto è iniziato a mutare. La Prefettura è diventato luogo ostile, era impossibile comunicare con i funzionari. In quel tempo la notorietà acquisita da Riace era alta e aveva attirato l’attenzione mondiale. Sono iniziate le ispezioni della Guardia di Finanza, dei funzionari prefettizi. Quattro relazioni in poco tempo, due a favore e due contrarie. Una di queste, quella più favorevole dove si descrive il modello di accoglienza di Riace, così come lo raccontava il mondo intero, è sparita. Abbiamo aspettato un anno con incessanti richieste formali dei miei legali prima di poterla leggere per intero. Un giorno mi presentai con padre Zanotelli in Prefettura e Di Bari si rifiutò di incontrarci. Mentre fu molto solerte e puntuale nel firmare l’autorizzazione a una manifestazione neofascista a Riace. Portarono le bandiere nere fin sotto al Comune. Una vergogna».