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La guerra delle donne giapponesi ai tacchi a spillo

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Il KuToo è nato una sera di gennaio, in Giappone, e non c’è stato bisogno affinché si diffondesse, o meglio diventasse virale, di chissà quale filosofia politicizzata, semplicemente è bastata una giornata di lavoro particolarmente faticosa di Yumi Ishikawa, assistente in un’agenzia di pompe funebri di Tokyo. Yumi quella sera torna a casa con piedi e schiena distrutti, ha dovuto sopportare tutto il giorno dolori lancinanti a causa dell’ennesima giornata passata in equilibrio su tacchi vertiginosi e guardando con invidia i colleghi uomini tranquillamente rilassati nei loro comodi mocassini. Così, prende il cellulare e twitta:

Ovvero: “Se le donne potessero indossare scarpe del genere, il nostro lavoro sarebbe meno scomodo”. Un tweet che scoperchia un problema che sembra secondario ma che avvilisce da anni le donne giapponesi, tant’è che il messaggio diventa immediatamente virale fino a raggiungere più di 30 mila retweet e più di 68 mila like. Ed è lì che viene coniato per la prima volta l’hashtag #KuToo, combinazione delle parole kutsu (scarpa in giapponese) e l’hashtag di MeToo. Le donne di tutto il Giappone, in massa, cominciano dunque a postare foto delle ferite procurate da ore ed ore in bilico su trampoli che arrivano ai 15 cm.

こんなに血塗れになってでも
パンプス履いて就活しないとダメなのか…
みんな全く同じ格好して、何が見えるの。#KuToo pic.twitter.com/ZK27Y0XwPj

— mini (@mini35378229)
20 marzo 2019

 

Ma soprattutto il tacco diventa simbolo di un’immagine dello stile femminile imposta dagli uomini e che oggi le giapponesi rifiutano categoricamente. Su change.org è stata anche creata una petizione ad hoc per manifestare il disagio al Ministero della Salute nipponico firmata al momento da 16mila persone. Ed è così che Ishikawa da semplice commessa con i piedi distrutti dopo una giornata di lavoro diventa la nuova paladina di un movimento che si fa sempre più grosso, dedito alla smantellazione di uno stereotipo femminile fin troppo doloroso per essere sopportato.

Una vera e propria fissazione quella per i tacchi delle aziende giapponesi, tant’è che una rivista locale, dopo un sondaggio, ha rilevato che il 70% delle donne che lavorano a Tokyo sono costrette ad indossare tacchi alti almeno una volta alla settimana e nel 2017, l’Hilton Hotel Osaka avrebbe offerto sconti per tutte quelle clienti che si presentavano alla reception con i tacchi; 10% di sconto per un tacco di 5 cm, fino al 40% per uno che arrivava ai 15.

Elizabeth LaCouture, direttrice del programma di studi di genere presso l’Università di Hong Kong, ha dichiarato al South China Morning Post che “Anche se l’uso a lungo termine dei tacchi comporta rischi per la salute come danni muscolari, in tutto il mondo sono ancora percepiti come un simbolo di femminilità. “Fa parte di una cultura aziendale occidentalizzata”, ha detto LaCouture, che ha vissuto in Giappone per alcuni anni, aggiungendo “Si ritorna al conservatorismo della cultura aziendale tradizionale: i tacchi fanno parte dell’uniforme femminile, anche gli uomini sono legati a una sorta di uniforme da ufficio, è solo che le loro scarpe sono un po’ più comode”.

Un problema che riguarda anche i paesi limitrofi come Cina, Corea del Nord e del Sud, dove i tacchi continuano ad essere previsti come parte della divisa da lavoro, ma non le Filippine che nel 2017 sono diventate il primo paese asiatico a prendere posizione contro le società che impongono il tacco. Il divieto a livello nazionale è avvenuto dopo che quattro donne si sono lamentate del problema con un sindacato che ha portato la questione al governo.

Ma secondo Ishikawa il problema tacco nella cultura giapponese è solo la punta dell’iceberg di un problema con la figura femminile che il Giappone, grazie al movimento KuToo, sta affrontando per la prima volta di petto e con gli occhi del mondo addosso “Il più grande problema in Giappone – dice la stessa Ishikawa –  è che molte persone pensano che non ci siano problemi per quanto riguarda l’uguaglianza di genere”.

Vedi: La guerra delle donne giapponesi ai tacchi a spillo
Fonte: estero agi


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