Craxi fece eleggere Gerry Scotti, Natta candidò Gino Paoli, La Malfa propose Alberto Arbasino. Ma erano volti solo decorativi per leadership fortissime. Il sindacalista è stato cinicamente usato. Flaiano lo aveva previsto
GIORGIO MELETTI
I partiti hanno esternalizzato la linea politica ai candidati simbolici
Ci sono due modi per comprendere la tristissima parabola dell’onorevole Aboubakar Soumahoro. Il primo chiama in causa permanenze millenarie delle vicende umane, in questo caso il bisogno di simboli a cui aggrapparsi, prima religiosi, poi, grosso modo a partire dalla rivoluzione francese, anche laici. Il secondo riguarda la cronaca degli ultimi anni e come l’uso delle icone nel marketing politico sia diventato smisurato e cinico, perciò stupido, cioè dannoso a sé e agli altri secondo la definizione ormai classica di Carlo Maria Cipolla. Interessa relativamente se Soumahoro sia colpevole o vittima di un complotto e di un’aggressione mediatico-popolare a sfondo razzista. In ogni caso è stritolato in una storia più grande di lui nella quale le uniche responsabilità specifiche che interessano sono semmai di chi lo ha usato.
Una storia più grande di lui
Che sia finito in una storia più grande di lui lo dimostra il fatto che è stata anticipata nei dettagli quasi settant’anni fa da Ennio Flaiano nel celebre racconto Un marziano a Roma. Il marziano Kunt atterra con la sua “aeronave” sul prato del galoppatoio di Villa Borghese e il popolo intero, proletari, borghesi e intellettuali, si accende di entusiasmo: «La gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza che poteva sembrare assurda ieri e che di ora in ora si va invece facendo più viva. La speranza “che tutto cambierà”». Kunt diventa una celebrità. Viene ricevuto dal papa (come Soumahoro). «Oggi il marziano ha accettato improvvisamente di far parte di una giuria di artisti e di scrittori per l’elezione di Miss Vie Nuove», scrive Flaiano. Vengono organizzati cocktail in suo onore. Viene usato: «Il marziano ha accettato di fare una particina di marziano in un film che sarebbe diretto da Roberto Rossellini, il quale si sta interessando affinché al finanziamento del film partecipi una società marziana». Un mese fa, un attimo prima della tempesta, Soumahoro ha partecipato alla trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa” insieme a Maurizio Costanzo, Roberto Burioni, Nino Frassica, Cristiano Malgioglio, Gigi Marzullo e altri. Flaiano vede la fine avvicinarsi. «Attilio Riccio afferma che il marziano è un caso tipico di idolatria dell’ignoto. Egli prevede che finirà linciato. Si dice anche, e io lo noto a titolo di cronaca, che il marziano si è innamorato di una ballerina che si fa desiderare e parla di lui in termini ignobili». La fine arriva quando il marziano si trasforma rapidamente da possibile eroe in solito stronzo, come avrebbe detto anni dopo Alberto Arbasino. «Nel grigio silenzio, qualcuno ha gridato forte: “A marziano!…”. Il marziano si è subito voltato ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo. Il marziano è rimasto fermo e scrutava nel buio. Ma non c’era nessuno o, meglio, non si vedeva nessuno. Si è mosso per riprendere la sua passeggiata; un suono ancora più forte, multiplo, fragoroso, lo ha inchiodato sull’asfalto: la notte sembrava squarciata da un concerto di diavoli. “Mascalzoni!” ha gridato il marziano. Gli ha risposto una salve di suoni, prolungata, scoppiettante come un atroce fuoco d’artificio».
La sorte dell’onorevole Soumahoro era dunque segnata. La profezia di Flaiano si realizza nelle parole con cui il leader di Sinistra Italiana lo liquida in un’intervista a Repubblica. Alla domanda se, dopo l’autosospensione dal gruppo (che nessuno sa bene che cosa sia), il protettore degli invisibili debba dimettersi dal parlamento, Nicola Fratoianni risponde glaciale: «Autosospendersi è stato giusto, il resto dipende da lui». Una flaianesca pernacchia sarebbe risultata più umana.
È la cronaca politica degli ultimi decenni a farci comprendere il significato di una vicenda che è disastrosa per l’interessato ma soprattutto per le sorti di ciò che chiamiamo sommariamente sinistra. Le candidature acchiappavoti sono state la regola a partire dagli anni Ottanta, quando i partiti della prima repubblica hanno interpretato a modo loro l’esigenza di modernizzarsi. Di fatto si sostituivano nuove icone a vecchi santini. Un grande vecchio del comunismo come Pietro Ingrao vide il problema e lo disse a chiare lettere, intervenendo nel dibattito aspro all’interno del suo partito sul cosiddetto “strappo” con Mosca: «Il vecchio socialismo non serve più a niente, è inutile continuare a venerarlo. Non mi inginocchio davanti a quei santini, perché voglio vivere dentro di me il sogno e la speranza». Il Pci non lo ascoltò e subito inventò nuovi santini. Alle politiche del 1987, le prime dopo la morte di Enrico Berlinguer, mise in lista e portò in parlamento il principe degli avvocati d’affari Guido Rossi e il cantautore Gino Paoli.
Il Partito socialista italiano di Bettino Craxi ci dava dentro. Nel 1984 sostituì il comitato centrale con un’assemblea nazionale di oltre 600 membri dove dentro c’erano testimonial di ogni tipo, scienziati illustri, imprenditori, cantati e attori. Un’accozzaglia alla quale un socialista a 24 carati come Rino Formica dedicò l’immortale sintesi «un’assemblea di nani e ballerine». C’erano lo stilista Nicola Trussardi, attori come Vittorio Gassman, Ottavia Piccolo e Sandra Milo, cantanti come Ornella Vanoni. Nel 1987 Craxi portò in parlamento il volto televisivo di Gerry Scotti che pure, da deputato, continuò a presentare il Festivalbar. La Dc fece eleggere l’ex calciatore Gianni Rivera. Il Partito radicale di Marco Pannella portò a Montecitorio la pornostar Ilona Staller, detta Cicciolina.
Questi volti noti erano dichiaratamente decorativi e politicamente insignificanti. È vero che Guido Rossi, dall’opposizione, dette un contributo fondamentale alla legge Antitrust ma è anche vero che nessuno l’aveva proposto come icona del comunismo. Come è vero che l’unico risultato dell’elezione di Gino Paoli fu far sapere al popolo comunista che aveva votato il parlamentare più ricco, con un reddito di un miliardo e mezzo di lire nel 1991. D’altra parte in Liguria il segretario del Pci Alessandro Natta, che era di Imperia e si candidava a casa sua, fu eletto con 90 mila preferenze, mentre il cantautore d’area ne prese poco più di 7 mila ed entrò alla Camera per il rotto della cuffia. Insomma, l’icona era una cosa, la politica un’altra. E infatti, i l Partito repubblicano nel 1983 fece eleggere in parlamento proprio Alberto Arbasino, grande scrittore che se lo meritava solo per la sintesi definitiva della corsa al successo:«In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». Ma il leader del Pri rimaneva un gigante della politica come Ugo La Malfa. Come nel 1976 l’elezione a senatore per la Dc di Umberto Agnelli, insieme al fratello Gianni padrone della Fiat, non mise in discussione che l’anima del partito in quella competizione elettorale rimanesse rappresentata dai suoi leader, a cominciare dal segretario Benigno Zaccagnini, per non parlare di Aldo Moro e Giulio Andreotti.
Le icone di Veltroni
Una diversa stagione dei candidati acchiappavoti è quella inaugurata nel 2008 da Walter Veltroni in occasione delle sue sfortunate e uniche elezioni politiche da leader del neonato Pd. È un’importante tappa di avvicinamento al disastro odierno. Veltroni inventa la tecnica del presepio, dove in nome del «ma anche» mette in lista il falco della Confindustria Massimo Calearo, il giovane imprenditore asseritamente illuminato Matteo Colaninno e l’operaio della ThysseKrupp Antonio Boccuzzi, scampato per un pelo pochi mesi prima al rogo in fabbrica che ha ucciso sette suoi colleghi. Boccuzzi è spaesato: «La scelta di Veltroni di candidarmi dimostra che quello del Pd è un progetto serio, in cui l’operaio ha un ruolo attivo e il mondo del lavoro è al centro». Il suo collega Ciro Argentino, candidato dal suo partito, il Pdci di Oliviero Diliberto, lo avverte: «Si sta cacciando in un gioco più grande di lui e rischia di farsi male. In Parlamento, se andrà bene, parlerà mezza volta e basta». Ci pensa Massimo D’Alema a rincuorare Boccuzzi con il linimento interclassista: «Ti troverai in parlamento con Matteo Colaninno, un giovane con cui lavorerai benissimo insieme perché rispetta gli operai. Siete due volti diversi di un’Italia che vuole tornare a crescere. Un grande partito che vuole avere la maggioranza per governare deve trovare il coraggio di mettere insieme operai, imprenditori, intellettuali». In realtà ha ragione Argentino e Boccuzzi parla come Soumahoro 14 anni dopo: «Spero che saremo in molti in parlamento a dare voce a chi finora non l’ha avuta. Il mio impegno sarà legato alle classi più deboli del paese».
La vera vittima del cinismo
La storia di Soumahoro è sintomatica e preoccupante proprio perché segna il passaggio dal candidato accattivante come addobbo della lista, o del presepio multicolore, alla protesi di identità politica. Lo si capisce quando il leader verde Angelo Bonelli affida al sindacalista nero il ruolo di candidato premier della alleanza Sinistra Italiana Verdi, e presenta la mossa come un suo generoso passo indietro, «nel momento in cui tanti leader politici antepongono egoisticamente se stessi agli interessi del paese». Hanno venduto come candidato premier, incarnazione di una linea politica che non c’è, uno di cui, lo ammettono adesso, non sapevano niente. Se c’è una vittima in questa storia, a parte i dipendenti della suocera, è proprio Aboubakar Soumahoro.
Fonte:Domani