I VESPRI SICILIANI


Così venne tardivamente denominato il moto per cui, sul declinare del sec. XIII, s’infranse, col dominio angioino in Sicilia, la monarchia creata nell’Italia meridionale da Ruggiero II d’Altavilla.

Varie e complesse, remote e prossime, le cause. La vittoria di Carlo I d’Angiò a Benevento aveva iniziato un nuovo periodo storico per l’isola, ch’era il centro del regno e che col trasferimento della capitale da Palermo a Napoli veniva degradata a provincia. Invano il conquistatore cercò di guadagnarsi gli animi con sagge provvidenze. Quanto tenaci restassero le tendenze sveve in Sicilia lo dissero le sollevazioni provocate dalla tragica impresa di Corradino nel 1268, onde il governo instaurò un ferreo regime, reso più inviso dall’avidità dei cavalieri francesi, che la recente conquista aveva portato nell’isola, dalla prepotenza burocratica, dai tributi tanto più onerosi quanto più vasti divenivano i disegni imperialistici di Carlo I.

Febbrili, frattanto, le trame degli esuli presso tutti i nemici del regno angioino, in Italia, fra i ghibellini, e fuori, soprattutto presso Pietro III d’Aragona, che, come marito di Costanza, la superstite figlia di Manfredi, e come signore d’un paese portato ad espandersi nel Mediterraneo, si sentiva particolarmente attratto verso la Sicilia. Fra quegli esuli, Giovanni da Procida è la figura di maggior rilievo: sapendo che Carlo I era impegnato nei preparativi per una spedizione contro l’Impero bizantino, egli rinfocolò le ambizioni dell’Aragonese e contribuì a dare all’impresa la necessaria preparazione diplomatica e militare. E già nella primavera del 1282 la flotta di Pietro III aveva raggiunto le coste dell’odierna Algeria con l’obiettivo di spiegare le vele verso la Sicilia, quando, inattesa, giunse l’eco di fatti gravissimi in essa avvenuti.

Il 31 marzo 1282, all’ora dei vespri del lunedì di Pasqua, dal piazzale adiacente la chiesa di S. Spirito, di Palermo, era partita la scintilla suscitatrice d’un vasto e indomabile incendio: la ribellione, prodotta dal gesto, inverecondo e imprudente, d’un soldato francese che, sospettando nei convenuti armi nascoste, s’era messo a frugare anche le donne, s’era rapidamente propagata nell’isola; i Francesi, sopravvissuti al massacro, erano stati espulsi da ogni dove; le città s’eran dati ordinamenti popolari, avevano invocato la protezione della Chiesa e inviato loro rappresentanti a un’assemblea federale convocata a Palermo.

Udite tali impreviste novità, Pietro d’Aragona spedì senza indugi legati in Sicilia, perché affrettassero la sua chiamata, non da tutti voluta. E finalmente dalla suddetta assemblea gli venne offerta, in base a determinati patti, la corona siciliana. Il 7 settembre 1282 egli arrivava a Palermo, donde poco dopo muoveva verso Messina, che, chiave della Sicilia, resisteva eroicamente all’assedio postovi da Carlo d’Angiò.

Insignoritosi di Messina, l’Aragonese passò all’offensiva e portò le armi in Calabria, che, simpatizzante per la causa siciliana, era suo interesse congiungere politicamente alla Sicilia. Sennonché mentre la guerra si estendeva sul continente e mentre sul mare magnifici successi riportava la flotta siculo-aragonese al comando di Ruggero di Lauria, uno degli egregi fuorusciti meridionali accolti dalla corte d’Aragona, il papato e la Francia venivano in aiuto di Carlo d’Angiò. Donde più vaste complicazioni diplomatiche e militari e urto di altri interessi, che non pare dovessero sempre giovare al trionfo della causa per cui la Sicilia era insorta contro la “mala signoria” angioina e per cui veniva affrontando durissime prove. Ciò risaltò maggiormente, più che dai negoziati tra Alfonso III, successore di Pietro III, e Carlo di Valois, che papa Martino IV aveva investito del regno d’Aragona, dalle trattative che menarono agli accordi del 1292 tra Bonifacio VIII e Giacomo II d’Aragona, successore di Alfonso III: in forza di tali accordi Giacomo II rinunziava alla Sicilia in cambio della Sardegna e della Corsica.

Ma i Siciliani sostennero tenacemente la loro volontà d’indipendenza e, incuranti della scomunica, elessero nel gennaio del 1296 loro re Federico d’Aragona, fratello di Giacomo, e continuarono la guerra ch’ebbe alterne vicende. Le ostilità cessarono il 1302 col trattato di Caltabellotta: Federico d’Aragona conservava, col titolo di re di Trinacria, il possesso della Sicilia, che, alla sua morte, doveva tornare agli Angioini. Cosa che non avvenne mai più: ché anzi la guerra, riarsa alla morte di Federico d’Aragona e protrattasi per quasi tutto il Trecento, fu la voragine dilapidatrice delle finanze siciliane, come delle napoletane.

Rovesciando il dominio d’un oppressore e dandosi ed attaccandosi a un’autonomia politica, che rispondeva alla natura geografica e alla correlativa coscienza del paese, più che agl’interessi di esso, la Sicilia dette, nel sec. XIII, innegabile prova di vigoria e di fierezza politica: quel gesto si configurò come un mito nella coscienza siciliana. Senonché non lievi danni derivarono dal Vespro: la secessione siciliana pregiudicò lo sviluppo storico del Mezzogiorno d’Italia, sia insulare sia continentale, e preparò da lontano la soggezione dell’isola allo straniero.

 

 

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