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Sibilia Aleramo (Rina Faccio)

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Di Lea Melandri fonte@enciclopediadelledonne

Chi diventa biografo si impegna alla menzogna, all’occultamento, all’ipocrisia, ad abbellire le cose e perfino a celare la propria incapacità a comprendere giacché non è possibile attingere alla verità biografica…1

Con questa saggia avvertenza si apre il libro curato da Bruna Conti e Alba MorinoSibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata (Feltrinelli 1981), a cui devo la “riscoperta” di una straordinaria “coscienza anticipatrice” di quello che sarebbe stato il femminismo degli anni Settanta. Se il dubbio di poter restituire le vite dei singoli nei loro passaggi reali vale per chiunque, nel caso di Sibilla Aleramo perde ogni consistenza, dal momento che il rapporto scrittura e vita è il tratto dichiarato e dominante di tutta la sua opera: dal romanzo autobiografico Una donna (1906), al romanzo lirico Il Passaggio (1919), al romanzo epistolare Amo dunque sono (1927), alle poesie, ai saggi, ai Diari – Diario di una donna (Feltrinelli 1978), Un amore insolito (Feltrinelli 1979) – alle note sparse, i “migliaia di foglietti” che accompagnano la produzione letteraria.

Quelli che per altre scrittrici sono i “viottoli”, i sentieri a margine che preparano il momento alto dell’ispirazione, per Sibilla diventano in modo sempre più consapevole la strada maestra, l’interesse principale della scrittura, tanto da potersi rappresentare, non tanto come letterata, ma come “qualcosa di raro nella storia del sentimento umano”. La scrittura diventa esplicitamente il luogo in cui versare gran parte di sé: il “flusso irrefrenabile di vita” attraverso cui passa la ricerca di identità come costruzione dell’autonomia dell’essere femminile e come “sforzo incessante autocreativo”. Il narrarsi assomiglia perciò, nel suo caso, a un singolare percorso di autoanalisi, un processo continuo di svelamento: “veli tutti da sollevare”, “un pudore selvaggio, una selvaggia nudità”.

Agli uomini che si stupivano di poter parlare con lei “da pari a pari”, Sibilla faceva notare quanto fosse penoso per una donna aver “adattato” la propria intelligenza alla loro per averne la stima, essersi allontanata da se stessa per imparare il loro linguaggio, “riflettere” la loro rappresentazione del mondo “aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”.
L’attenzione ai modelli imposti dalla cultura maschile e “incorporati” dalle donne stesse – “la violenza invisibile” – sarà al centro delle analisi e delle pratiche del femminismo degli anni Settanta, ma mentre i gruppi di autocoscienza si occuperanno della sessualità, Sibilla si sofferma quasi esclusivamente sul sogno d’amore. La definizione che ne dà corrisponde all’idea che gli umani – come dice Freud – hanno sempre avuto della “felicità” o dell’essenza di Eros: “fare di più d’uno uno”, “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. Questa ideale ricomposizione, se per un verso richiama l’unità a due dell’origine, la primordiale indistinzione madre-figlio, dall’altro è il mito che l’uomo ha costruito per ricomporre ciò che la sua storia ha diviso – corpo/mente, natura/cultura, individuo/società, eccetera. Nella figura dell’androgino i poli opposti e complementari del maschile e del femminile trovano la loro interezza, ma la riunificazione avviene questa volta sul sesso dominante, quello che si è posto come misura dell’umano e protagonista unico della storia. È lo spirito che prende corpo, è Eva che va a completare Adamo, è la madre che va a incorporarsi nel figlio, non viceversa. La cultura greco-romana-cristiana esclude le donne dalla polis, ma trattiene in sé il femminile, condannando le donne al drammatico annodamento tra la loro “insignificanza storica” e la loro “esaltazione immaginativa”.

La narrazione di sé compiuta da Sibilla Aleramo, lunga e appassionata quanto la sua vita, è perciò doppiamente interessante e anticipatrice di una rivoluzione delle coscienze che sarebbe venuta nella seconda metà del Novecento. Innanzitutto perché sottrae al silenzio della vita intima una vicenda – l’illusione amorosa – che interessa entrambi i sessi, ma che è stata identificata con la donna, madre e amante, corpo erotico e corpo che genera. Calandolo “nella mischia”, cioè portandolo sulla scena pubblica, Sibilla può sottrarlo alla naturalizzazione che ha subìto e restituirlo alla storia del sentimento umano, oltre che al rapporto tra uomini e donne. In secondo luogo, perché una volta allo scoperto, il sogno d’amore si lascia guardare e analizzare in tutte le sue implicazioni: nostalgia dell’origine, ma anche ideale di interezza, come uscita da tutte le contrapposizioni dualistiche che hanno segnato la vita del singolo e lo sviluppo delle civiltà dell’uomo.

Ma soprattutto, appare finalmente chiaro che la riunificazione prende forma su un Io maschile, rispetto al quale la donna è stata pensata da sempre come “forza integrante creativa”. Ciò spiega perché Sibilla arrivi a dire di sé di essere come Adamo che aspetta che gli “sorga al fianco” Eva, perché il suo “incessante sforzo autocreativo” diventi ogni volta travaso di energie per far crescere l’individualità dell’altro, linfa vitale che passa sull’uomo amato, lasciandola priva di vita propria.

Finché non riuscirà a togliere anche l’ultimo “velo”, quello che l’ha resa “schiava” della sua “forza”, della sua “creatrice immaginazione”:

Il mio potere era questo: far trovare buona la vita… La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto, quasi […] Ecco, l’amore è questo: l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari. L’amore nella donna, almeno, e in quegli uomini in cui predomina l’elemento femminile.

È uno svelamento che avviene nella vita, come conquista di una coscienza nuova di sé, ma è la scrittura che lo prepara nell’andirivieni incessante di sogno, rapimento e lucidità di analisi, smarrimento nell’altro e scoperta del “fastidioso obbligo di vivere per sé”. Nel romanzo Una donna Sibilla costruisce l’immagine idealizzata, eroica, della donna che ha avuto il coraggio di sottrarsi all’immolazione materna per farsi protagonista sulla scena pubblica di un nuovo corso della storia, a fianco del “triste fratello” e della sua sterile civiltà. Ma a margine del suo slancio quasi mistico – le “moderne ascete” – ci sono “migliaia di foglietti”, migliaia di annotazioni prese soltanto per necessità di riconoscersi, in cui viene annotando lucidamente la centralità dell’uomo e della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna a completamento organico: il corpo che lo nutre e lo riscalda. Finché, a un certo punto, i due percorsi finiscono per convergere.

Mentre sta scrivendo il secondo “diario” (1945-1960), Sibilla si rende conto che sta perdendo la sua ispirazione poetica, che nello sforzo di convogliare tutta la sua esperienza nell’atto creativo si era sentita “via via cancellare dalla vita”. Per quella “corrente tacita di pensieri e sentimenti” – quasi una “sotterranea, seconda vita”–, che non poteva essere travasata in poesia, se non “disumanandola”, occorreva un’altra scrittura, fatta di annotazioni quotidiane, capace di dare voce a sentimenti contraddittori, “estasi e gelo”, e di avvicinarsi sempre più consapevolmente a “quella mestissima cosa ch’è la libertà, di cui si sente il valore solo quando manca”. La lezione di una coscienza femminile in anticipo, quale emerge da “frammenti di lucida intuizione” – che Sibilla stessa intuisce essere la sua più preziosa eredità alle donne che verranno dopo di lei – sarà proprio quel “narrarsi” fatto di selvaggi pudori e selvagge nudità, di follia e improvvise illuminazioni, con cui le donne hanno cominciato a costruire la loro individualità fuori dai modelli imposti.

Vera profeta della riscoperta che il femminismo farà del suo singolare percorso di vita e di scrittura, Sibilla così annota nelle ultime pagine del suo Diario:

Io non so se i nomi di cui mi servo per tutte le cose di cui parlo sono i veri. Sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre. Ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose.
Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?

Rileggendola e riscrivendola attraverso “stralci”, pagine estrapolate da contesti molto più ampi, nel mio libro Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002) sono portata a fantasticare che avesse previsto anche me e l’appassionato interesse che le ho dedicato per anni.