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Scopelliti,l’ombra del patto patto mafia-‘ndrangheta

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Una carriera brillante, interrotta dai sicari a 56 anni. Procuratore generale presso la Corte d’appello, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Magistrato inquirente di vari maxi processi di mafia e di terrorismo. Antonino Scopelliti era questo e molto altro. Ora, 34 anni dopo, la polizia sta passando a setaccio con nuove rilevazioni balistiche attraverso una ricostruzione della scena criminis che in Italia non ha precedenti tutti gli elementi certi di un agguato che il 9 agosto 1991 sorprese il magistrato a bordo della sua auto, una Bmw 318i, rimasta nella disponibilità dei familiari, in viaggio di ritorno dal mare nella frazione Ferrito di Villa San Giovanni a Piale di Campo Calabro (Rc).
Scopelliti aveva rappresentato la pubblica accusa nel primo processo Moro, in quello scaturito dal sequestro dell’Achille Lauro, nel giudizio per la strage di piazza Fontana e per la strage del Rapido 904. Per quest’ultimo processo, Scopelliti chiese la conferma degli ergastoli inferti al boss di Cosa Nostra Pippo Calò e a Guido Cercola, nonché l’annullamento delle assoluzioni di secondo grado per altri mafiosi. Il collegio giudicante della prima sezione penale della Cassazione, presieduto da Corrado Carnevale, rigettò la richiesta della pubblica accusa, assolvendo Calò e rinviando tutto a nuovo giudizio.
L’agguato avvenne all’altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell’abitato di Piale, una frazione di Villa San Giovanni (RC). Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, appostati lungo la strada, spararono con fucili calibro 12 di fabbricazione spagnola caricato a pallettoni, centrandolo alla testa con due colpi esplosi in rapida successione. L’automobile, priva di controllo, finì in un terrapieno. Responsabilità e movente del delitto sono ancora con più ombre che luci. Le forze dell’ordine intervennero per quello che si riteneva un incidente stradale, ma l’esame esterno del cadavere e la scoperta delle ferite da arma da fuoco fecero emergere la verità. Scopelliti, quando fu ucciso, stava lavorando al rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese di pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. L’ipotesi investigativa tuttora prevalente è che per eliminarlo si sancì un patto tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra, dopo diversi tentativi di corruzione. Il pentito Marino Pulito rivelò che a Scopelliti furono offerti 5 miliardi di lire italiane per ‘raddrizzare’ la sua requisitoria. Secondo i collaboratori di giustizia Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca, è stata la cupola di Cosa Nostra siciliana a chiedere alla ‘ndrangheta di uccidere Scopelliti, e in cambio sarebbe intervenuta per fare cessare la seconda guerra di ‘ndrangheta in corso a Reggio Calabria dall’ottobre 1985. Nell’abitazione paterna di Scopelliti, dove il magistrato soggiornava durante le vacanze, furono trovati gli incartamenti processuali del maxiprocesso. Per la sua uccisione furono istruiti e celebrati presso il tribunale di Reggio Calabria due processi: uno contro Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Pietro Aglieri, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Buscemi, Salvatore Montalto e Giuseppe Lucchese; il secondo procedimento contro Bernardo Provenzano, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Giuseppe ‘Piddu’ Madonia, Benedetto Spera, Mariano Agate e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado rispettivamente nel 1996 e nel 1998 e poi tutti assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000 perché le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero in un secondo momento quelle del boss Giovanni Brusca) vennero giudicate discordanti.
L’11 luglio 2012, nel corso di un’udienza del processo Meta contro la ‘ndrangheta a Reggio Calabria, il pentito della cosca De Stefano, Antonino Fiume, disse che a uccidere il giudice sarebbero stati due reggini su richiesta di Cosa nostra, senza però fare i nomi dei killer. Nel 2019 il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, riaprì l’inchiesta a seguito di nuove rivelazioni del collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola, che ha consentito di ritrovare alcune armi che, a suo dire, sarebbero state usate nell’omicidio, e risultarono iscritti nel registro degli indagati esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta come mandanti ed esecutori materiali: i siciliani Matteo Messina Denaro, Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo, lo stesso Avola e i calabresi Santo Araniti, Pasquale Bertuca, Vincenzo Bertuca, Giorgio De Stefano, Gino Molinetti, Antonino Pesce, Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano e Vincenzo Zito. (AGI)