Type to search

Riforme istituzionali quanto conterà il fattore M

Share

TANTE SONO LE VARIABILI POLITICHE E TECNICHE GETTATE NEL FRULLATORE DI UN PROCESSO CHE SARÀ MOLTO LUNGO

Giovanni Guzzetta * *Giurista

È troppo presto per dire dove ci porterà questo nuovo vagito di riforma istituzionale. La sbandierata determinazione fa parte della liturgia nota. Ignota però è l’incidenza del fattore M. Il carattere della Presidente del Consiglio. Certamente conterà e gli indizi sono confortanti, così come le aperture di altri settori riformatori. Il punto di caduta, però, non è definito. Tante sono le variabili politiche e tecniche, gettate nel frullatore di un processo che sarà lungo. E in materia, come si sa, anche una virgola fa la differenza tra riforma vera e maquillage. La comprensibile cautela ci impedisce di conoscere, al momento, persino il modello prescelto. E la proposta si porta dietro il perimetro della maggioranza che potrebbe appoggiare le proposte, fino al punto, forse, di evitare quel referendum confermativo che è stata la pietra tombale di ogni tentativo. Il referendum non è un male in sé, anzi, ma di esso si è fatto sempre uno strumento di lotta politica, come un’elezione. Per questo il perimetro della maggioranza riformatrice è importante. Rompere lo schema consueto, che ha trasformato lo scontro sulle istituzioni in una campagna elettorale combattuta con altri mezzi, sarebbe fondamentale. Purché non diventi l’altare su cui si sacrificare i contenuti che rendono la riforma “vera”.
E veniamo ai modelli, su cui si sta scatenando la consueta guerra di religione. Se si mettono da parte i chiacchiericci provinciali sulle derive autoritarie e magari si fa qualche lettura in più su come funziona il mondo e su quanto avevano già capito nel 1946 personaggi come Einaudi, Calamandrei, Tosato o Perassi, allora ci si rende conto che le tanto disprezzate “tecnicalità” in realtà sono il corollario di una fondamentale scelta di fondo. Ed è su quella che ci si dovrebbe concentrare, ancor prima che su modelli e soluzioni. Costantino Mortati, maestro del diritto e relatore sulla forma di governo alla Costituente, la metteva, all’epoca, già in modo chiaro. L’alternativa sta tra “fare una Costituzione in cui al popolo sia affidata la funzione di preposizione alla carica dei titolari degli organi costituzionali oppure una Costituzione in cui il popolo abbia il potere di designare anche gli indirizzi politici, e sia quindi un organo di espressione di una concreta volontà politica”.
Detto altrimenti, il dilemma era e rimane questo: vogliamo istituzioni in cui i cittadini si limitano a dare le carte ai partiti che fanno e disfano governi a piacimento, oppure le elezioni servono per decidere effettivamente l’indirizzo di governo e la composizione della maggioranza? Cui va aggiunto, nell’epoca della “presidenzializzazione” di tutte le grandi democrazie (risparmio le citazioni), anche la scelta di chi debba metterci la faccia, guidando il Paese? Lo stesso dilemma lo ebbe la Francia, di fronte all’agonia della IV Repubblica. E le alternative più serie, quelle vere, furono anche lì tra modelli che oggi definiremmo di semipresidenzialismo e premierato. La prima linea fu seguita da De Gaulle, la seconda da gruppi di intellettuali, molti anche della sinistra socialista (ad esempio il Club Jean Moulin), che ruotarono intorno di immaginare un modello di elezione diretta del premier con scioglimento automatico nel caso di crisi. Due modi di affrontare lo stesso problema: che ruolo ai cittadini? E mentre l’Italia optava per istituzioni deboli consegnando al dominio dei partiti la cogestione della Repubblica, altrove, si sceglieva l’altra strada.
I nostri neo-costituenti dovrebbero tornare al dibattito francese. Esso, mostrerebbe innanzitutto che la scelta tra elezione diretta del capo dello Stato o sistema di premierato non sono in sé alternative manichee. E che il problema invece è come si costruiscono l’una o l’altra, perché non siano inefficaci. Il semipresidenzialismo presenta un vantaggio. È un modello sperimentato e “aggiustato” nel corso dei decenni proprio per evitare che si risolvesse in una soluzione inutile o pericolosa.
Sul premierato, invece, c’è soprattutto un dibattito, e il passo falso della vicenda israeliana. Per questo si tratta di una soluzione più difficile, ma non per questo impossibile. Purché sia chiaro l’obiettivo, che presuppone di aver scelto rispetto all’alternativa di Mortati. Vogliamo un sistema centrato sulle mani libere dei partiti in Parlamento o sulla responsabilità di chi governa di fronte al corpo elettorale? La responsabilità di chi governa, non la responsabilità di chi fa e disfa i governi senza essere chiamato a rispondere se non “a babbo morto”, quando la legislatura lasciandosi alle spalle tre o quattro maggioranze diverse, con buona pace degli orientamenti elettorali. Che giudizio può dare il popolo sulla responsabilità di tanti governi radicalmente diversi tra loro? Per questo la proposta “premierale”, che prenda sul serio gli obiettivi indicati, non può prescindere dall’idea del “governo di legislatura”: la fisiologia dev’essere un unico governo per cinque anni. Guardando alla crisi italiana, queste esigenze sono le uniche rilevanti. Il patto costituente di assegnare ai partiti lo scettro del principe, allora giustificato dal contesto, è stato superato dalla storia e dalla dissoluzione dei suoi protagonisti, lasciandoci instabilità ingovernabilità e trasformismo. Resuscitare i partiti, senza cambiare istituzioni, come qualcuno, anche in buona fede, spera, significa alimentare la degenerazione oligarchica cui puntualmente risponde la reazione populista.
Se invece la posta in gioco è scommettere sulla seconda opzione di Mortati, bisogna avere ben presente che l’obiettivo richiede di lavorare sui due versanti della vita parlamentare: la scelta elettorale della maggioranza e del suo Premier e il modo in cui si assicura la fedeltà alle scelte elettorali in corso di legislatura. Le due cose stanno inevitabilmente insieme.
In un articolo del 1961 su Le Monde, Maurice Duverger, il padre del “premierato”, lo diceva chiaramente: ci vuole sia l’elezione diretta che l’automatismo dello scioglimento, perché senza elezione diretta “se lo scioglimento è libero, il parlamento sceglierà qualcuno che non sciolga mai, se lo scioglimento è automatico il parlamento sceglierà qualcuno che non governerà affatto”. L’unica soluzione è il governo di legislatura. Correttivi possono essercene, ma non dimentichiamo che indeboliscono lo schema di gioco, in cui il principe o l’arbitro (per citare Ruffilli) non debbono essere i partiti, ma i cittadini.
Sul piano politico, poi, così come il semipresidenzialismo, una volta affermato, ha guadagnato un consenso trasversale (con Mitterand che da oppositore accanito ne è diventato il maggior beneficiario) anche il premierato dei “professori” ha ottenuto consensi bipartisan. Non ultimo quello del Gruppo di Milano guidato da Gianfranco Miglio e il cui massimo ispiratore è stato Serio Galeotti. Da De Gaulle a Mitterand, da Duverger a Miglio c’è spazio per rompere la maledizione elettoralistica e fare una riforma valutata per il suo contenuto e non per obbedire alle logiche di schieramento. Purché sia chiaro dove si vuole andare e a chi vada consegnato lo scettro del principe, mantenendo i paletti decisivi ed evitando così che sia solo una manovra gattopardesca.

Fonte: Il Riformista