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RIFORME: EVITIAMO IPOCRISIE

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Di Angelo Panebianco

Riusciranno a sorprenderci o sarà un deprimente déjà vu? Come era prevedibile, il confronto sul tema della riforma costituzionale è partito con il piede sbagliato. Proponendo «soluzioni» (presidenzialismo, premierato, elezione diretta del premier, eccetera), senza spiegare — perché sarebbe politicamente troppo costoso, come vedremo — quale sia il problema che ci si propone di risolvere. Se si continua così, finirà con una divisione acuta fra quelli che raccontano all’opinione pubblica che il presidenzialismo sia sinonimo di decisionismo (e non lo è, anche se è dai tempi di Bettino Craxi che l’equivoco viene alimentato) e quelli che si travestiranno da partigiani, cantando Bella ciao,e marciando in difesa della «costituzione nata dalla resistenza». Nessuno ha la sfera di cristallo ma, a occhio e croce, le probabilità che per questa strada si possano fare serie riforme costituzionali sembrano più o meno le stesse che ha il ponte sullo stretto di Messina di essere prima o poi finito e inaugurato: vicine allo zero. Che le forze politiche usino il tema costituzionale per farsi propaganda, per blandire i vari settori di un’opinione pubblica al tempo stesso divisa e disorientata, non deve stupire né scandalizzare: è la democrazia, bellezza. Ma certo sarebbe un bel passo avanti se, anziché dalle formule, si partisse dalla identificazione del problema.
ervirebbe quanto meno a snidare i gruppi, le forze, che avrebbero più da perdere da una seria riforma costituzionale. Bisognerebbe uscire dalla genericità: dire che si tratta di mettere fine alla endemica instabilità dei governi (la grande piaga della Repubblica italiana fin dalla sua nascita) non è sufficiente. Occorre andare alla radice del problema. Solo in questo modo si possono individuare i rimedi più efficaci.
Per isolare il problema conviene partire da tre domande. La prima: come mai le uniche due rilevanti riforme costituzionali che la Repubblica abbia conosciuto, quella del titolo Quinto (sui rapporti fra centro e periferia) e la riduzione del numero dei parlamentari, non incontrarono forti resistenze? La risposta è che entrambe le riforme andavano nella direzione — che, per ragioni diverse, piaceva a tanti — dell’ulteriore indebolimento di un «centro politico» (governo e Parlamento), già di per sé tradizionalmente debole. La seconda domanda: perché quella tentata da Matteo Renzi e bocciata da un referendum popolare nel 2016 era una buona riforma? La risposta è che, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo simmetrico (due camere con uguali poteri) sia il titolo Quinto, avrebbe rafforzato, indirettamente ma sicuramente, la forza del governo centrale. La terza domanda: perché quel progetto suscitò l’opposizione di un gran numero di gruppi fra loro eterogenei (qualcuno ricorderà, ad esempio, che Magistratura democratica prese pubblicamente posizione contro)? La risposta è che in Italia ci sono molti gruppi che temono un rafforzamento del governo perché ciò indebolirebbe i loro poteri di veto sulle politiche e sulle decisioni pubbliche.
Per note ragioni storiche che è inutile qui richiamare, la Costituzione venne costruita in modo da favorire la formazione di governi deboli, un sistema istituzionale non già di «pesi e contrappesi» ma di contrappesi senza pesi, ove era più facile bloccare l’azione dei governi che governare. Per questo ci furono democratici (come Gaetano Salvemini) che la criticarono subito duramente.
L’instabilità e l’inefficienza governativa che ne derivarono furono a lungo bilanciate dall’esistenza di un partito dominante, la Democrazia cristiana e, più in generale, di un forte e radicato sistema dei partiti. La formula della (cosiddetta) Prima Repubblica si reggeva su una combinazione di istituzioni di governo deboli e di partiti forti. Finita quell’epoca, ci siamo ritrovati con le stesse istituzioni di governo deboli ma anche con partiti senza più la solidità e la forza di un tempo. L’indebolimento della politica rappresentativa ha portato con sé il simmetrico rafforzamento delle posizioni di apparati (vertici amministrativi, magistrature di ogni ordine e tipo) con un potere di interdizione e di veto che, stando nell’ombra, lontano dai riflettori, possono esercitare ed esercitano ogni giorno a scapito della suddetta politica rappresentativa. Ma se questo è il vero problema, allora si tratta di capire quali soluzioni siano le più idonee per riequilibrare il rapporto fra politica rappresentativa e i gruppi la cui forza è alimentata dalla debolezza della prima. Per lo meno, bisognerebbe far emergere, all’interno della maggioranza di governo come nelle file dell’opposizione, la divisione fra chi vorrebbe davvero rafforzare la politica rappresentativa e chi è invece sensibile alle pressioni e alle lusinghe degli interessi alimentati dai numerosi e ormai radicatissimi poteri di veto. Sugli aspetti di «contenuto» in tema di modifica della forma di governo, vale forse la pena, in questa fase, fare una sola osservazione. Così come si rivelò alla fine perdente il tentativo di riformarla partendo dal cambiamento della legge elettorale agli inizi degli anni Novanta (nella speranza, rivelatasi infondata, che quel cambiamento avrebbe imposto una conseguente riforma costituzionale), significa commettere l’errore opposto proporre di cambiare la forma di governo senza contemporaneamente progettare una modifica della legge elettorale. O le due cose procedono insieme o si resterà fermi al palo.
Concludo osservando che l’unica credibile difesa dello status quo costituzionale di cui chi scrive abbia conoscenza si deve a Giuliano Ferrara. Per il quale il nostro assetto istituzionale, alimentando il trasformismo, ha garantito nel tempo alla democrazia italiana la flessibilità necessaria per assorbire ogni genere di pressione. Ha sorretto l’unico sistema di governo, quello trasformistico appunto, che si poteva e si può permettere una società divisa e polarizzata. C’è molto di vero. Però il prezzo è stato ed è assai elevato. È a quel sistema di governo che dobbiamo il fatto di avere caricato sulle spalle delle generazioni future il fardello di un grande debito pubblico. O, per venire a cose assai attuali, è tale sistema di governo che, facilmente, ci porterà a sprecare, o a sprecare in gran parte, la grande occasione rappresentata da quella specie di Piano Marshall che sono i fondi del Pnrr. Confrontando costi e ricavi, svantaggi e vantaggi, non c’è di che rallegrarsi.

Fonte: Corriere