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POCHE BALLE SUL JOBS ACT

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Il Foglio – Tommaso Nannicini

Lui, ai suoi occhi, rappresenta l’immagine perfetta di tutto ciò che lei non può sopportare. Lei, ai suoi occhi, rappresenta l’immagine perfetta di tutto ciò che lui non può non detestare. Lui, ai suoi occhi, è il simbolo genuino di tutto quello che, primadi arrivare dove si trova oggi, lei combatteva, e ora combatte meno. Lei, ai suoi occhi, è il simbolo genuino di tutto quello che, negli ultimi anni, lui combatteva, e ora combatte meno. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron, che domani si incontreranno a Roma, sono fatti per non capirsi, e questo lo sappiamo, e al netto degli sforzi diplomatici che ciascuno dei due staff ogni tanto cerca di fare, per smussare gli angoli delle diffidenze, la distanza incolmabile tra la premier italiana e il presidente francese è fatta per resistere nel tempo. Meloni non sopporta Macron per ragioni insieme politiche e psicologiche. Macron, con il suo europeismo sfacciato, con il suo globalismo rivendicato, con il suo anti populismo sfrontato, è il riflesso perfetto di ciò che il partito di Meloni ha sempre combattuto, e per quanto si possa cambiare nel tempo, alcuni tic restano ancora oggi.
Altro che precariato, da abolire per via referendaria. L’idea alla base della riforma, osteggiata sin dall’inizio da Cgil e Uil, era di ridurre il lavoro atipico per favorire il tempo indeterminato. Storia, obiettivi e limiti di una legge che ha prodotto assunzioni, non licenziamenti, ma che divide ancora
C’Le bufale sul Jobs act
era una volta il Jobs act. La legge delega del governo Renzi, ispirata all’omonima riforma di Barack Obama. Una legge fortemente osteggiata da Cgil e Uil, tanto da far scrivere a molti che per Renzi era il gesto che doveva spezzare il cordone ombelicale tra partito e sindacati, ciò che per Tony Blair era stata la riscrittura della “Clause IV” dello statuto del New Labour. Già i riferimenti evocati fanno capire che parliamo di un’altra stagione politica, che si muoveva entro coordinate molto diverse dalle attuali. Le riforme andavano fatte per crescere. I debiti erano cattivi. E non si poteva spendere e spandere, come hanno fatto i governi dalla
pandemia in poi. Se ancora oggi, a dieci anni di distanza, quella riforma divide così tanto, forse vale la pena fare un po’ di archeologia del presente, per ricostruirne gli obiettivi, gli strumenti e anche i limiti.