di Alberto Bianchi
Pur se siamo ancora nel pieno della commozione per la morte appena avvenuta di Papa Francesco, lentamente si fanno strada le prime riflessioni sul significato e la portata del Pontificato bergogliano nella storia della Chiesa cattolica. Occorreranno tempo e necessario distacco dai recenti avvenimenti per ricerche più di fondo.
Nondimeno, alcuni criteri metodologici di esame e d’indagine su Bergoglio e la sua eredità, congiuntamente a determinate categorie d’analisi cominciano a delinearsi in proposito. Una tra queste, forse allo stato attuale delle cose la più diffusa tra commentatori a caldo e tentativi di riflessioni meno superficiali, parla di un Pontificato di Francesco dal dominante carattere rivoluzionario, che ha ribaltato la Chiesa cattolica. Ed eventi oggettivi a conferma di una tale tesi sono stati numerosi e diffusi nei dodici anni del regno bergogliano, che non è possibile ora elencarli in questa sede.
La problematicità della questione, però, nell’ambito della storiografia in generale e della storiografia ecclesiastica in specifico, non è affatto nel ricorso all’impiego della categoria di rivoluzione nella dialettica del confronto che è appena iniziato intorno all’interpretazioni del Papato bergogliano, impiego che, ripeto, ha buone ragioni in termini di rispondenza storica e di legittimità interpretativa; quanto, piuttosto, nel trarre criticamente tutte le implicazioni oggettive ed interpretative dall’uso della categoria di rivoluzione applicata al Pontificato di Francesco.
Qui, a mio parere, il nodo da sciogliere – almeno in prima istanza – non è quello dei riflessi di ordine dottrinale e teologico dell’opera rivoluzionaria di Bergoglio, che pure ci sono e saranno da valutare attentamente, e sui quali avrei non pochi dubbi e preoccupate critiche da sollevare. Ma non è qui il momento di affrontare tali disquisizioni. La domanda ora più urgente è un’altra: in quale fase del processo rivoluzionario, Papa Francesco ha lasciato la Chiesa a seguito del suo ritorno alla casa del Padre?
Come è ben noto, nel campo non solo della scienza delle dottrine politiche, ma pure della ricerca storica, è assodata la convinzione che ogni rivoluzione è accompagnata sempre da quella che – fermo restando che non ci sono leggi universali dello sviluppo storico – si potrebbe chiamare una sorta di empirica regolarità di inveramento: una pars destruens, di sconvolgimento di un ordine ed unità dati e di caos trasformativo che – sconfitte resistenze e posizioni reazionarie, naturalmente – quasi sempre viene attuata e conseguita dai rivoluzionari; ed una pars construens, di ricostruzione di un nuovo ordine e di un’unità su altre basi, che sempre si promette e mai o quasi mai arriva.
Ordunque, Francesco ha conseguito e perseguito la prima fase, anche con positivi, quantunque fragili, risultati in alcuni casi; poco o nulla la seconda, come molti commentatori e seri analisti di cose vaticane sottolineano. Soprattutto, nel governo della Chiesa, ha destrutturato enti e processi della Curia romana, tra cui il totale depotenziamento della Segreteria di Stato, accentrando il potere politico-amministrativo solo sulla sua figura; così come ha relegato ad un rango vescovile, che non comporta più automaticamente la porpora cardinalizia, diocesi importanti come Milano, Venezia, Parigi, Los Angeles, Buenos Aires (comunità, dunque, che non saranno neppure rappresentate nel Conclave che eleggerà il nuovo Pontefice). Questi sono solo due esempi, ma la lista sarebbe molto lunga e mi fermo qui. Tutto questo in onore di una concezione ecclesiastica – alquanto discutibile – per cui l’essenza della Chiesa cattolica si coglierebbe meglio dalla “periferia del mondo”, dalle diocesi dello zero virgola sperdute ai margini del mondo, piuttosto che non dal centro da cui ha preso avvio l’inveramento storico e culturale dell’universalismo cristiano: l’Europa e l’Occidente. Ritornano alla mente le parole dolenti di ammonimento di Benedetto XVI su un Occidente, ecclesiastico e politico, capace soltanto di svalutare e odiare se stesso.
È singolare, dunque, che lo stesso Pontificato di Francesco rappresenti una lezione – anche per chi operi negli altri campi dell’attività civile, politica, economica, intellettuale dell’uomo – di cosa siano al fondo l’essenza e l’espressione di concezioni e volontà rivoluzionarie, per le aspettative smisurate che alimentano e le antinomie che recano in sé.
Che cosa c’è da augurarsi, pertanto, dal prossimo Conclave? Francesco è morto il giorno del lunedì dell’Angelo, a ridosso della Domenica pasquale, di quella Resurrezione di Gesù che è il fondamento della fede cristiana. Il disordine mondiale ci dice che c’è urgente bisogno di una duplice resurrezione: del Chiesa Cattolica e dell’Europa. Ed allora è auspicabile che i Cardinali chiusi in Conclave – ancor prima di scegliere, ispirati dallo Spirito Santo, il nome del nuovo Pontefice – si chiedano quali legami intimi e quali differenze profonde hanno avuto i due regni papali di Benedetto XVI e Francesco: non per trovare chissà quale sintesi superiore hegelianamente intesa tra le due esperienze, tale che il nuovo Papa le raccolga e, perciò stesso, le annulli in sé, non si sa bene in che magici contenuti e forme. La storia ed il pensiero non procedono in tal modo. E neppure – è da ritenere – la realtà della Chiesa.
Piuttosto è da chiedersi cosa i Patres cardinales possano dare ed indicare ai fedeli cattolici e all’umanità perché il mondo possa iniziare a ritrovare un equilibrio ed un ordine spirituali non disgiunti da quelli politici e geopolitici. Certo tutti i cristiani, in qualsiasi diocesi siano ed operino dei cinque continenti, saranno chiamati dal nuovo Papa a dare il loro apporto: diocesi grandi e diocesi piccole. Il successore che verrà al soglio petrino potrà essere originario da qualsiasi continente, naturalmente, purché abbia nella resurrezione delle radici europee – spirituali giudaico-cristiane e filosofico-giuridiche greco-romane – uno dei suoi compiti magisteriali prioritari anche se non esclusivi.