Dal Corriere – Paolo Lepri
L’Onu? «Dovrebbe celebrare il fatto di essere viva e non morta», dice lo studioso di geopolitica Kishore Mahbubani, per due volte ambasciatore di Singapore al Palazzo di Vetro. Ma non è giusto accontentarsi di questo, anche se l’epoca in cui stiamo vivendo viene definita da molti, eufemisticamente, «meno internazionalista». Con lo spirito che sembra quello dei naufraghi scampati al disastro è stata messa in mostra a New York la bozza della Carta firmata il 26 giugno 1945 a San Francisco dai rappresentanti di cinquanta Stati (oggi i Paesi membri delle Nazioni Unite sono 193), cioè il documento che vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali, riaffermando «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo» e promuovendo «il progresso sociale». Adesso, a ottanta anni di distanza, con le sue correzioni a penna e le sue piccole cancellature, il solenne preambolo fa lo stesso effetto di un messaggio trovato in una bottiglia affidata alla volubilità implacabile del mare.
Come ricordano in un articolo per The Economist l’ex segretario generale Ban Ki-moon e Helen Clark, premier della Nuova Zelanda dal 1999 al 2008, lo svedese Dag Hammarskjöld (uno degli storici predecessori del diplomatico sudcoreano) disse nel 1954 che l’istituzione costruita in quel giorno nel quale la metropoli californiana era probabilmente avvolta dalla nebbia (che non impedì ai delegati di vedere bene l’orizzonte) «non fu creata per portarci in paradiso ma per salvarci dall’inferno». Le guerre dei nostri giorni, in realtà, stanno avvicinando sempre più il confine di quello che Italo Calvino chiamava l’inferno dei viventi.
C’era una limpida aria estiva, invece, la mattina in cui, molto più recentemente, un gruppo di diplomatici e alti funzionari — il cui portavoce è stato, sul web, il rappresentante permanente del principato del Liechtenstein — sono sfilati di corsa per Manhattan compiendo un itinerario che sulla mappa disegnava il logo del progetto di revisione varato in aprile dall’attuale segretario generale, António Guterres, proprio in vista dell’ottantesimo anniversario. La sua visione delle cose è abbastanza semplice: «Le Nazioni Unite hanno prevenuto in questi decenni la Terza guerra mondiale». Ma sui conflitti di oggi, aggiungiamo, si sono dimostrate totalmente assenti.
Correre fa sempre bene, guardando al simpatico appuntamento newyorkese, ma ciò nonostante è stata la tristezza a segnare il compleanno dell’onu. E le parole hanno esaurito la loro forza. Ci aspettiamo qualcosa di più. Servono rapidamente decisioni sul piano concreto delle riforme, archiviando senza rammarico, per esempio, la cerimonia officiata nell’assemblea generale e le molte carte prodotte per l’occasione, tra cui spicca quella della missione di Washington in cui si afferma che «come ottanta anni fa, gli Stati Uniti sono pronti ad impegnarsi per la causa della pace, proprio come il presidente Trump ha fatto questa settimana nel garantire il cessate il fuoco tra Iran e Israele».
Riforme, allora, tenendo conto che una è impossibile, quella del diritto di veto che ha paralizzato la capacità del Consiglio di Sicurezza di fermare le ostilità e mettere a punto o imporre soluzioni di pace nei luoghi dove a parlare sono le armi. In questo scenario è chiaro che può essere molto opportuno rilanciare il ruolo di mediazione del segretario generale. La malattia del Consiglio di Sicurezza indebolisce ulteriormente un organo che non rappresenta più la realtà attuale. Le discussioni per allargarlo, aprendolo all’africa e all’america Latina, stanno andando avanti lentamente quasi da mezzo secolo. Riuscire finalmente in questa impresa — a cui ha lavorato con energia e passione anche l’italia — sarebbe un importante passo avanti. «Il processo — osservano ancora Ban Ki-moon e Helen Clark — deve essere guidato dall’assemblea Generale, non dal Consiglio stesso». Meglio ribadire anche l’evidenza.
Più in generale, facendo i conti con un’organizzazione che dà lavoro a quasi 150.000 persone e che attraversa una drammatica crisi finanziaria, il compito di Guterres non può che essere quello di avviare una rivoluzione strutturale del sistema e delle sue modalità. Sembra essere prioritaria, solo per citare un aspetto, la necessità di evitare duplicazioni tra le agenzie impegnate nell’assistenza umanitaria e negli aiuti allo sviluppo. Poi dovrà proseguire il suo successore. Entrerà in carica nel 2027 ma le grandi manovre per la designazione sono destinate ad iniziare presto. Tutto lascia pensare — e potrebbe essere una svolta positiva — che arrivi finalmente il momento di una donna.
Non si può però negare che il problema principale sia la volontà politica. Tutto è legato al senso di responsabilità dei singoli membri. Ma è anche nell’interesse di ognuno mettere fine ad una attività declamatoria in grado soltanto di radicalizzare le posizioni (della quale Israele, nonostante i suoi tanti errori, è stata spesso un obiettivo privilegiato). Un futuro diverso dovrebbe parlare la lingua di un’organizzazione «a geometria variabile», luogo principale per l’avvio di iniziative in grado di smuovere le acque stagnanti degli egoismi, come sarebbe potuto avvenire, per esempio, con la conferenza sulla questione palestinese e la soluzione dei «due Stati» rinviata nelle settimane scorse per le tensioni in Medio Oriente. Si tratta di essere realisti, pensando — come sostiene Ian Bremmer — che la legittimità e la credibilità delle Nazioni Unite risieda «nel poter parlare a nome di otto miliardi di persone». Povertà, ambiente, salute, istruzione, comunicazioni. Anche missioni di pace, pur nella condanna più netta dell’operato dei caschi blu durante il massacro di Srebrenica. Un mondo senza Onu sarebbe peggiore. Ma non possiamo lasciarla vivere così.