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Wembley, appuntamento con il destino

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AGI – Alla fine ci si ritrova sempre lì, a far girare sotto il sole e nella sera la palla rotonda: sia essa a scacchi o di cuoio cucito che a darci un colpo di testa resta il segno sulla fronte come nemmeno a Boris Karloff quando faceva Frankenstein. Oppure dai colorini timidamente accennati in un gioco di complicate geometrie da sudoku scivolanti più tardi nell’argento indistinto, sicché adesso che quando ce ne sono due in campo l’arbitro, poveretto, non se ne accorge.

Ci si trova sempre lì, insomma, a Wembley. Se Milano ha la Scala del Calcio, Londra aveva le sue Torri Gemelle. Ecco, quelle non ci sono più ma il resto, lo stadio, c’è e resiste: agli improperi della vita e alle offese degli uomini. Keep calm and carry on.

Le Torri Gemelle di Wembley erano lì dalla fondazione, insomma dal lontano 1923. Inaugurazione con la finale di Coppa d’Inghilterra, tra Bolton e West Ham. Simbolo di splendido isolamento: poteva esserci partita più importante al mondo della finale di Coppa d’Inghilterra? Bisogna essere onesti: all’epoca non c’era. Altrove il calcio veniva praticato già da una ventina d’anni buoni, ma gli unici che potessero dire di saper giocare a pallone erano gli inglesi.

Da tempo non è più così, quindi ripetiamo quello che più o meno scaramanticamente tutti dicono e ridicono in queste ore, e cioè che gli inglesi mai vinto un torneo hanno, se non fosse stato per quell’unico mondiale sottratto alla Germania Ovest nel ’66. A Wembley, appunto.

Ragion per cui continueremo pure a considerarlo e a chiamarlo con Pelé la Cattedrale del Calcio, da buon contraltare del Meazza, ma sotto sotto sapremo che semmai si tratta della Temple Church. Quella, per intenderci, dove Robert Langdon si trova a girare come una trottola convinto di scoprirvi il segreto del Codice Da Vinci, e invece in campo ci sono due cryptex al posto dell’unico regolamentare.

Milady, l’Europa

Tutto cambiò nel 1973 (supremazie, timori reverenziali, miserie e nobiltà) un giorno di novembre. Sia detto per gusto del parallelismo e dello speculare: sugli spalti c’erano 30.000 italiani pronti alla rivincita morale dei migranti, seppur la Gran Bretagna fosse appena appena entrata, bene accolta, in quella che oggi è l’Unione Europea.

Mai avevamo violato il sancta sanctorum, vale a dire battuti gli inglesi a casa loro. Ma poi Spinosi partì dalla nostra tre quarti, Capello prolungò per Chinaglia che scattò sulla destra e, dall’interno dell’aera ma quasi sulla linea di fondo, crossò nemmeno troppo bene. Vale a dire: né alto né basso, né forte né mirato.

Però Shilton, che pure è uno dei migliori portieri nella storia di un paese che di portieri è sempre stato scarsetto (Pickford rispetta la tradizione) non blocca all’altezza del torace. Devia verso il centro dell’area e qui, lasciato solo da un fulmineo attacco di pirlitudine – non nel senso di Andrea Pirlo –  della difesa inglese, c’è Capello che, con la fredda compostezza verticale di Carson il butler di Downton Abbey, la appoggia in rete.

Milady, la cena è servita. Benvenuti in Europa.

Quando poi il declino ha inizio, arrestarlo è complicato. Una manciata di anni dopo lo smacco fu vissuto nuovamente con la Scozia e con i suoi tifosi che facevano carne di porco del manto erboso e delle attrezzature, bruciando metaforicamente le seconde sopra il primo nei loro bivacchi di barbari invasori. Forse fu allora che si decise il restyling: un ottimo modo per cancellare i più brutti ricordi.

Il vecchio Welmbley resiste fino al 2002. L’ultima partita la disputano i due vecchi highlander, cioè la squadra di casa e la Germania. Poi una nuvola di polvere e materiali da costruzione. Restano a terra le Torri: la Multiplex Construction, la ditta australiana che ha già costruito lo stadio Olimpico di Sydney, le giudica inutili.

L’appalto le vale 500 milioni di euro. La prima costruzione ne era costata più o meno dieci e dieci volte meno. All’epoca però le squadre di club non erano quotate in borsa.

Ora s’erge in piena Londra come allora, Moloch in attesa di nuove vittime da sacrificare mentre la folla si scatena in quello che proverbialmente si chiama, appunto, l’Urlo di Wembley.

Ma di quella folla può sorprendere, per contro, anche il silenzio. Dopo aver imposto quest’ultimo, Fabio Capello ebbe modo di ascoltare il primo per quattro anni e mezzo, quando venne chiamato ad allenare la nazionale da lui stesso ridotta al lumicino. Alla fine se ne andò perché offeso da una Football Association che lo trattava da giovane praticante.

Però anche l’altra sera era lì, in tribuna, a vedere cosa sarebbe successo in queste semifinali. Perché se l’assassino è sempre il maggiordomo, allora il butler torna sempre sul luogo del delitto. Così sfida tutto: il passato, il presente, il futuro e persino l’Inghilterra.

E si presenta, immancabilmente, all’appuntamento col destino.

Source: agi


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