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Vincino raccontato (e spiegato) da Giuliano Ferrara 

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Giuliano Ferrara aveva scritto un ritratto di Vincino – al secolo Vincenzo Gallo – per presentare il suo ultimo libro, un'autobiografia. Eccola come l'ha riproposta il Foglio, il giornale con cui il vignettista scomparso a 72 anni collaborava dalla fondazione, 22 anni fa. 

Vincino è un populista, un antisistema, però conosce la storia, un populista che si è informato. Uno dei suoi fantasmini o silhouette dice a un altro, per spiegarsi tante cose tra padri e figli: “Voi avete avuto la guerra, noi il ‘68. Meglio noi”. C’è nient’altro da dire. Vincino ha sempre paura, è sempre in fuga da chi lo vuole prendere a botte, strilla in questura fino a impietosire i poliziotti che lo corcano, ne prende tante, ne dà qualcuna, scherza e bi-scherza, arriva nella redazione di Lotta Continua e dice di levare l’argenteria dai tavoli della redazione, niente revolver, perché è un fifone di coraggio, formato a Palermo tra i morti di mafia che non riesce a disegnare se non in pantomima, ha la faccia come il culo della satira, se ne impipa di tutto e della bella figura prima di ogni altra cosa. Il suo completo disinteresse si rovescia nell’ironia dell’avidità, si dispera come Leporello per la sua mesata: c’è sempre il problema del compenso a Vincino, che è per di più architetto, ma che vergogna, laureato con il minimo dei voti, e questo è un vanto, militante ma venduto, un piccolo borghese che ha strillato le sue battute, e stillato i suoi disegnini, nel Corriere e nel Foglio, da cui lo abbiamo provvidenzialmente licenziato, e anche se per burla lui si è messo paura, e se ne vanta per un quarto di secolo.  

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L’infamia di Vincino non ha confini, la generosità naturale non lo riscatta, la dissipazione non lo ricompone, nel suo andare dinoccolato, fumato, nel suo barbonismo principesco, nel suo sorriso diffidente e ineguale mostra di non essere una persona integra. E questa è la sua estetica, la sua arte burlesca e malinconica, è disintegrato, tira via, non vuole si veda il minimo sforzo, si finge infernale per comporre vignette tipiche del paradiso, si batte ossessivamente per il free speech a patto che si capisca sempre bene quanto poco gliene freghi, e quando minaccia i commessi della Camera e la Nilde Jotti, tutta gente molto integra, di buttarsi di sotto se non gli fanno prendere appunti disegnati in tribuna, è chiaro il capriccio infantile, evidente la cialtroneria di cui i comunisti superintegri come il caro onorevole Pochetti, che lui chiama Pochino, lo accusano con enfasi vocale, mica in torto.

Ma Vincino è dei nostri? No, è his own man, fa quel che cazzo gli pare

Purtroppo per lui è un letterato di genio a cavallo di due secoli, se tira una riga c’è una storia, se tondeggia e colora ecco un romanzo, ma appena senti la storia vedi che è secca come una riga, appena sei nel romanzo ti catapulti nell’Ottocento, nel secolo dello stile. Altri fanno satira, lui ha fatto stile. I suoi errori di italiano sono commoventi, un artefatto naturale che nemmeno Madame Bovary. La presa sul tempo, il suo punctum senza studium, è puro Roland Barthes. La sua vignetta è l’archetipo vivente del clic. Il cialtrone sofisticato è stato al Foglio la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo. Fino a un certo punto.

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Agli inizi il principe Carlo faceva l’erotomane, lui ce lo mandava molto visibilmente arrapato e con l’Union Jack, il prode caporedattore Buracchio aveva dei dubbi, lui lo degradava per fax a “redattore addetto alle vignette”, a me toccava la bella figura libertaria del direttore, sior direttore, che autorizza con sovrano sprezzo del pericolo. A forza di cialtronate Royal Watch fece di me un autocrate liberale, che vergogna. Poi Berlusconi fece un’esplorazione politica delle sue e Vincino ne disegnò sedici che ruotavano allegri e affannati nell’aria a gran velocità con la dicitura “Dura la vita dell’esplorator”, il suo amore passionale per il Cav. era incantevole. Questo gran ruffiano. Rendeva grottesca pure la nostra fronda.

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La grandezza di Vincino non sono i giornaloni e i giornalini a cui si è legato, sopra tutto per soldi, la sua forza è stata “Il Male” e tutti quei giornali che in questo suo memoir racconta da vantone e da ballista. Però sono stati giornali veri, nati d’insuccesso, coronati da successo, strangolati dall’anarchia e capaci di sfondare il muro del suono e delle copie, di fare tendenza, di farci scorticare dal ridere, dal sorridere, dal piangere lacrime amare, capolavori d’arte aggressivi e surreali, oltraggiosi e immodesti, che hanno fatto il culo al protocollo della democrazia liberale molto prima del vaffanculo di Gribbels.

Vincino in quel letame disorganizzato si muoveva come un pesce nell’acqua, tirò fuori talento d’attore, imitava Craxi, si travestiva, procedeva di falso in falso in compagnia di Sandro Parenzo, di Ugo Tognazzi e di altri gentiluomini di malaffare.

La grandezza di Vincino non sono i giornaloni e i giornalini a cui si è legato, sopra tutto per soldi, la sua forza è stata “Il Male” 

E’ un uomo e un autore che ama l’assurdo, l’irriverenza è la sua seconda e terza pelle, dice di aver fatto la scuoletta con “Il Becco giallo”, con “L’Asino” di Podrecca, con Scalarini, dice di amare e imitare Reiser, mostra segni di camaraderie con figuri loschi e pericolosi della sua combriccola italiana, gli Sparagna, i Vauro, gli Staino, i Saviane, l’ardente Pazienza, insomma tutti i corruttori del linguaggio politico via satira la più distruttiva, in questo libro c’è un curriculum impeccabile e totalmente falso. Sta con questi suoi fratelli, ed è chiaro che alla radice c’è un rapporto con suo padre, formidabile figura di manager dei cantieri navali di Palermo al centro di un sistema di potere che è stato la vera natura dell’Italia repubblicana negli anni d’oro, altro che Benito Crazzo ladro, un uomo integro fino alla durezza del simbolico che Vincino amava fino al punto di farne il ribaltone incarnato che si sa, sport che i figli praticano dai tempi di Edipo alla stagione di Freud e di Jung.

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Ma Vincino è dei nostri? No, è his own man, fa quel che cazzo gli pare, ritira qualche vignetta se la tipografia è ferma per un suo oltraggio, obbedisce se sia il caso, in prevalenza fugge, sfugge, svicola e sta al fronte in modo sfrontato, mostra il petto e ritira la mesata. Aristocratico, svagato, estremista, cedevole, si presenta come un lumpen, come un dannato della vignetta inscritto nel suo recinto sacro, che peraltro non ha come si sa confini, Vincino disegna sprazzi, nuvolette, ovali, tableau disordinati, concatenazioni scatenate, non vignette se non occasionalmente. D’altra parte è lui la vignetta che conta, il suo esame di stato con la pianta dell’Ucciardone spacciata al caro Franco Berlanda come un Panopticon dell’utopia, è lui il volgare truffatore che grida Viva il duce per salvarsi il culo, che si abbassa a scrivere agli esami da professionista, dopo due prove incredibilmente disegnate, per avere la Casagit. E’ lui che crede troppo negli altri, nella vita miserabile e limitata in cui siamo costretti, nell’amore e nei viaggi e nella dissimulazione, per credere anche a sé stesso. Genio, talento, azione, mito sono il suo tesoro disegnato e proiettato nel nulla del mondo, e guardate come lo ha sperperato.

Vedi: Vincino raccontato (e spiegato) da Giuliano Ferrara 
Fonte: cultura agi


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