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«VI RENDETE CONTO DI COME STANNO TORTURANDO QUEL GIORNALISTA?»

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Lorena Corrias, 37 anni, tutti i sabati si siede per terra su una piazza di Como per denunciare le infamie che il mondo occidentale sta producendo contro chi ha denunciato altre infamie dell’occidente

Susanna Schimperna

Per il terzo sabato consecutivo chi si trovi a passare in piazza Verdi, Como, vedrà una ragazza dai lunghi capelli neri e una tuta arancione seduta per terra, in un piccolo rettangolo delimitato da strisce di scotch bianco. Vicino a sé, come in una piccola stanza, ha tutto quello che le occorre: quadernone e penna per gli appunti, cellulare, un thermos. E poi un cartellone con la foto di Julian Assange e la scritta “Assange libero. Il giornalismo non è un crimine”. Lei si chiama Lorena Corrias, lo spazio che occupa è ricalcato su quello in cui è costretto a vivere Assange nella prigione di Belmarsh nel Regno Unito.
La sua protesta è contro la persecuzione che gli Stati Uniti e altri paesi dell’occidente libero, civile e democratico hanno avviato contro il giornalista Julian Assange, australiano, che negli anni scorsi ha denunciato e documentato molte infamie compiute dagli Stati democratici, e in particolare dagli Stati Uniti in vari paesi del mondo. E’ la sua professione denunciare soprusi e ingiustizie. Invece negli Stati Uniti è stato condannato a 175 anni di prigione. Ora aspetta l’estradizione. Se l’estradizione ci sarà per lui è finita.
Lorena questa grande ingiustizia non può tollerarla.
Per il terzo sabato consecutivo chi si trovi a passare in piazza Verdi, Como, vedrà una ragazza dai lunghi capelli neri e una tuta arancione seduta per terra, in un piccolo rettangolo delimitato da strisce di scotch bianco. Vicino a sé, come in una piccola stanza, ha tutto quello che le occorre: quadernone e penna per gli appunti, cellulare, un thermos. E poi un cartellone con la foto di Julian Assange e la scritta “Assange libero. Il giornalismo non è un crimine”.
Lei si chiama Lorena Corrias, lo spazio che occupa è ricalcato su quello in cui è costretto a vivere Assange nella prigione di Belmarsh nel Regno Unito (per violazione dei termini della libertà su cauzione conseguente alle accuse di stupro poi archiviate e per la richiesta di estradizione fatta in seguito dagli Stati Uniti), la tuta che indossa è la divisa dei prigionieri di Guantanamo. Perché è guardando il video che Assange diffuse su Guantanamo, che Lorena si è, per usare la sua stessa espressione, «svegliata dallo stato di sonno profondo in cui troppi di noi si trovano», e ha cominciato a impegnarsi per una causa che riteneva e ritiene importantissima – la liberazione del giornalista –, ben consapevole che non potrà fermarsi qui, che la vicenda coinvolge temi come il sistema carcerario e il carcere stesso come istituzione, la libertà di espressione, il diritto all’integrità personale, gli abusi del potere e dei suoi emissari, e quindi, non ultimo, il tema della nonviolenza. La protesta che Corrias sta portando avanti rientra infatti in una delle più tradizionali forme di lotta nonviolenta. Anche se lei non ne è del tutto consapevole.
Il tuo sit in pacifico a scadenza fissa, il tuo testimoniare col tuo corpo un’ingiustizia valendoti di semplici ma suggestivi elementi come la divisa dei carcerati di Guantanamo e il disegno della cella angusta di Assange avrebbero ottenuto il plauso dei grandi della nonviolenza.
Di cui io, e me ne dispiace, so poco o nulla. Potrei dire di essere una nonviolenta inconsapevole, istintiva. Ma molto appassionata. E mi riprometto di studiarli, questi grandi. In un mondo come il nostro, il loro insegnamento è un’ottima guida.
Ti sei ispirata a qualcuno?
A una ragazza di Berlino con cui sono tuttora in contatto, Raja Valeska, che scendeva in strada ogni giorno per protestare contro la detenzione di Assange.
Chi è Assange per te e quali aspetti di lui e di quello che ha fatto ti hanno colpito di più, ti hanno… svegliato dal sonno profondo?
Tutto è nato guardando una puntata di «Presa diretta», il programma di Riccardo Iacona, che era dedicata a lui. Sono rimasta sconvolta dallo scoprire tutto quello che gli era stato fatto, a partire dalle accuse di stupro e da quanti ancora oggi pensino che sia davvero uno stupratore. Mi ha colpito il suo essere riuscito a tradurre in realtà un progetto che sembrava impossibile, da pazzi: svelare il marcio e le ingiustizie, dare voce a chi non ce l’ha. Lui non si è limitato a declamare dei principii sacrosanti ma che tutti ripetono solo per farsi belli con le parole. Ha documentato, mostrato. Nel video girato il 12 luglio 2007 e che diffuse un paio d’anni dopo grazie all’ex militare Chelsea Manning, «Collateral Murder», si vedono soldati americani che da un aereo si divertono a sparare a civili per le strade di Baghdad, divertendosi come se stessero giocando con la playstation mentre i loro proiettili da 30 mm. uccidono, lasciano la gente urlante per terra. E poi la lista dei detenuti di Guantanamo. Persone che stanno lì perché hanno ricevuto una chiamata al cellulare da un terrorista o hanno lo stesso nome di un terrorista. Persone che anche se riconosciute del tutto estranee ai fatti loro imputati continuano a essere chiuse in carcere per mesi e anni. Che vengono torturate. C’è una scena in cui si vedono questi poveretti all’aperto, inginocchiati e legati, con occhiali tipo da saldatore neri, la mascherina, sotto il sole cocente. E poi il waterboarding, pratica orrenda: il prigioniero viene legato a una tavola inclinata con la testa in basso e le gambe in alto, e portato in mare oppure colpito con secchiate d’acqua
in modo che abbia la sensazione di annegare. Mi si è aperto un mondo. Non possiamo più fare finta di non sapere. Io dopo l’università (Scienze del Turismo) avevo letto poco, da quel momento ho cominciato a leggere, documentarmi, approfondire.
Probabilmente è dopo la diffusione di «Collateral Murder» che sono iniziati i veri guai per Assange… i tempi coincidono.
Assolutamente sì. Prima era considerato come una rock star, inseguito, richiesto ovunque, poi di colpo è diventato un criminale, uno stupratore. È stata attuta una campagna diffamatoria e adesso che degli stupri è risultato innocente la stampa è in silenzio, imbarazzata. L’hanno condannato a 175 anni di carcere, e se lo estraderanno in America non vedrà mai più la sua famiglia e dovrà decidere da chi ricevere una sola telefonata al mese di 30 minuti, se dalle persone care o dal suo avvocato.
Così tu diventi un’attivista. Cerchi gruppi a cui associarti, trovi il Comitato per la Liberazione di Assange Italia e Free Assange Italia. Lanciate una raccolta fondi, portate la questione in varie città italiane, mettete cartelloni. Però il 6 agosto, primo giorno di sit in a Como, scendi in piazza da sola…
In realtà mi accompagna in macchina mia madre, insieme a me in questa battaglia, e una mia amica, conosciuta a un’altra manifestazione. Prendo col metro le misure per terra, disegno un rettangolo di 2 m. x 3 con lo scotch da imbianchino e mi ci piazzo dentro. Ho con me molti volantini. Ci sono cartelli che invitano a firmare la petizione, e due cartelli a seguire su cui sopra ho scritto: “Io sono certa che le nostre singole azioni possano fare la differenza, e voi? Volete stare a guardare in silenzio questo uomo innocente mentre lo uccidono lentamente e lo torturano continuamente?”. Firmano non più di cinque persone.
Ma il sabato successivo, 13 agosto, va meglio?
Sì, forse perché con me c’erano anche altri tre ragazzi, del comitato di Milano, venuti apposta per distribuire volantini. Allora i passanti si sono sentiti meno… straniti. Io sono sempre da sola nella mia finta cella, ma vedere altre persone intorno ha fatto la differenza. Una persona addirittura mi ha detto «grazie per quello che fai», e abbiamo raccolto venti firme.
Cosa ti auguri che accada oggi? Cento firme, magari?
No, come Assange vorrei qualcosa di apparentemente impossibile: la sua liberazione.
Quanto andrai avanti?
Naturalmente ho dovuto chiedere i permessi per occupazione di suolo pubblico, e li ho chiesti fino al 25 marzo. Scaramanticamente. Spero che per allora non ci sia più bisogno di sit in.
Con i gruppi a cui appartieni avete in mente altre iniziative?
Stiamo organizzando la “24 ore per Assange” che si svolgerà il 15 ottobre. Un evento a livello planetario dove chi vuole può avere a disposizione 5 minuti per cantare, parlare, fare un flashmob. Tra gli organizzatori ci sono Olivier Turquet e Patrick Boylan, e al momento ancora raccogliamo proposte. Prima, però, un’iniziativa anche questa non solo italiana: l’8 ottobre circonderemo il parlamento inglese e il parlamenti di Washington DC, Ottawa, Canberra in Australia, Wellington in Nuova Zelanda. Gli stati interessati. Hanno già aderito 1520 persone, per la manifestazione a Londra.
Ti sei riproposta di portare ogni sabato a piazza Verdi qualcosa di nuovo. Che sarà questa volta?
Con Raja Valeska e un ragazzo australiano diremo una frase divisa in tre parti e ciascuno scriverà la sua parte su un cartello e la pronuncerà, unendo tutto insieme per far vedere che la protesta è a livello mondiale. In questo la tecnologia per fortuna ci aiuta.
Una curiosità sulla tua vita: che lavoro fai e come stanno prendendo il tuo impegno le persone intorno?
Lavoro in una concessionaria di auto. Mi vedono come una tipa strana che fa cose strane, e c’è un collega che è certo che Assange sia “il cattivo”. Però il mio titolare mi appoggia. Dice che apprezza molto che io impieghi il mio tempo libero dedicandomi a cose in cui credo fermamente.

Fonte: Il Riformista