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Valerio Santi: “il Teatro è comunicazione circolare”

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Di Claudia Lo Presti

 

A nove anni, prende parte ad uno spettacolo teatrale e in una sola notte riesce ad imparare a memoria l’intero copione, il suo ruolo e quello degli altri personaggi! Iscritto ad un corso di recitazione adatto ai bambini, considerato troppo vivace, conclude in breve la sua esperienza. Quale anno dopo, non ancora maggiorenne, ri-familiarizza col mestiere e prende parte a due spettacoli, scrive una commedia in dialetto siciliano che intitolerà ‘U fujiri è virgogna ma è salvamentu ‘i vita” che rappresenterà al Metropolitan di Catania. Durante la frequentazione della Scuola del Teatro Stabile, avvertendo che alcuni colleghi non tenevano in conto il dialetto considerandolo linguaggio di seconda classe, indispettito porta e distribuisce dieci copie della Centona di Nino Martoglio con tanto di dedica sulla seconda di copertina, rimarcando a ciascuno: “studia, impara cosa significa la nostra lingua, la sua musicalità, i suoi colori, la sua poesia e poi ne riparliamo!”

Valerio Santi cresce e si forma nella tradizione, ostinandosi a dare valore ai contenuti identitari da tutelare con orgoglio, così (come ama ripetere) fanno i napoletani; lo studio della recitazione nella sua carriera è sempre andato di pari passo con la ricerca della storia passata cucita a doppio filo con la vita della gente che fu, che un tempo viveva collegata alla natura, al territorio e ne rispettava le regole considerandole ineludibili. Questo stupefacente giovane che guarda sempre al passato, per non perdere mai di vista il proprio punto di partenza, a chi lo definisce “vecchio” egli risponde che la tradizione è memoria che si fa tessuto, trame fitte destinate a tenere quando l’uomo, in piena era digitale, non riuscirà più a declinare i propri paradigmi etici e rimarrà perduto in una rete virtuale invisibile.

 

 

  • Quando Valerio Santi ha deciso di diventare un attore? E quale percorso ha fatto per arrivare sin qui?

 

<<Il Teatro mi piaceva, ma all’epoca non avevo alcun fuoco sacro o chissà che, anzi, il mio interesse era più indirizzato al cinema ma per studiare mi sarei dovuto trasferire a Roma e mantenermi lì non era possibile. Poi una collega di lavoro di mia madre mi mise a conoscenza dei provini della Scuola del Teatro Stabile (in quegli anni non sapevo nemmeno cosa fosse un teatro stabile) e così provai. Con grande sorpresa passai le prime selezioni, ma quando arrivai a quella finale, ovvero la settimana di stage in cui sarebbe avvenuta la scrematura decisiva, finito il primo giorno tornai a casa devastato, dicendo: “Lì dentro sono tutti pazzi, io non ci vado più!” L’indomani però mi svegliai e dissi a me stesso: “No! Intanto ti alzi, ci vai e finisci la settimana di stage. Se passi quest’ultima selezione e capisci che questa scuola non fa per te, allora ti ritiri; ma non gettare la spugna adesso.” E fu così che mi ritrovai alla Scuola D’Arte Drammatica Umberto Spadaro del Teatro Stabile di Catania, accorgendomi col passare dei mesi che quello era il posto giusto per me. >>

 

  • La creativià di cui è animato la portano a compiere evoluzioni artistiche interessantissime che hanno spesso come sfondo ed ispirazione Catania e la sua storia: come accade che nell’era dell’infosfera, un giovane qual è lei, sia invece tanto affezionato alla tradizione della sua terra?

 

<<Nel mio lavoro cerco di spaziare e di non fossilizzarmi: nelle mie stagioni teatrali c’è sempre alle spalle una grande ricerca fatta con cognizione di causa, proponendo spettacoli di vario genere di autori italiani e stranieri, sia per dare al pubblico la possibilità di scegliere e di vedere altro, sia per confrontarmi con materie che siano funzionali alla mia crescita e rimandino lo sguardo alle mie radici di catanese e siciliano. Dunque affronto con rispetto e rigore, nonché la stessa meticolosità, L’aria del continente di Nino Martoglio e Copenaghen di Michael Frayn, L’eredità dello zio canonico di Russo Giusti e Rosmersholm di Ibsen, o ancora Fiat voluntas Dei di Giuseppe Macrì e Misura per misura di Shakespeare. Il teatro di tradizione nel quale cresco e che continuo a far crescere con lo studio e la ricerca della nostra storia ricchissima di usi, modi, costumi, riti, personaggi etc…, è obiettivo e punto di partenza al tempo stesso perché mi compiaccio e soffro al tempo stesso in quanto pare che la cultura e la tutela del passato siano disconosciuti da cittadini ed autorità, che piuttosto che farne la propria bandiera, se ne fregano, celebrando saltuariamente i personaggi illustri più noti e tralasciandone altri ugualmente illustri e trascurando luoghi, eventi e ricorrenze che hanno contribuito nei secoli a dare gloria e valore sia alla nostra città che alla nostra regione. >>

 

  • A chi si riferisce precisamente?

 

<<Ha mai sentito parlare del gruppo di poeti catanesi chiamati “Trinacisti” operativi tra gli anni ‘40 e ‘50?  Celebrare e/o ricordare a livello istituzionale artisti – per citarne alcuni – come Giovanni Grasso, Rosina Anselmi, Tommaso Marcellini, Ercole Patti, Giovanni Formisano o lo stesso Francesco Paolo Frontini che ho rispolverato nella mia trasposizione de La Musica dei Ciechi utilizzando alcuni fra i suoi brani e di cui “misteriosamente” è nato un festival qualche mese dopo l’anteprima del mio spettacolo al Castello Ursino? Catania è una meravigliosa città ma dalla memoria troppo corta, così come la Sicilia in generale; eppure è un Teatro a cielo aperto: basta andare tra i quartieri popolari come San Cristoforo, la Civita, il Fortino, gli Angeli Custodi o la pescheria, ‘a fera ‘o luni, per vedere subito quanta teatralità ci sia nella spontaneità del popolo. Sono cresciuto in una famiglia che, grazie a Dio, parla il nostro dialetto e fin da piccolo sono sempre stato affascinato dal suono, dai colori e dall’immediatezza esplicativa che possiede la nostra lingua, ma mi sono anche accorto, crescendo, che ci sono catanesi che lo rifiutano e lo snobbano; quando invece il dialetto rappresenta l’assoluta identità di un popolo, unica ed inconfondibile.>>

 

 

  • Qual è la sua idea di teatro?

 

<<Penso fortemente che il Teatro oltre ad essere la forma artistica probabilmente più completa che esista, abbia una funzione sociale fondamentale in una comunità, anche se con il passare del tempo invece di acquisire maggiore rispetto e riconoscenza da tutti, non viene tenuto inconsiderazione come lavoro, ma guardato con sospetto e distacco come fosse divenata attività futile, facile, esclusivamente divertente! Responsabilità prevalente di un sistema che non crea ma genera per inerzia, trattenendo i pochi residui di una cultura agonizzante: tornaconto e tasca piena in primo piano! Invece occorre che si faccia politica culturale, come fosse una battaglia civile perché il teatro serva a risvegliare le coscienze, oggi più che mai assopite dal bombardamento mediatico e tecnologico che ha totalmente rivoluzionato la scala dei valori morali dell’intera collettività. Questo pensiero sta infatti alla base della scelta che compio nel mettere in scena uno spettacolo piuttosto che un altro, aldilà del genere, comico, drammatico, sociale o popolare che sia. Per me il Teatro non è un fattore estetico, non è autocelebrazione dell’io e mania di protagonismo come per molti; per me il Teatro è altro, qualcosa di assolutamente più profondo e spirituale, dove si lavora sull’anima, sull’emozioni, sulla coscienza e sui sentimenti di chi lo fa e di chi lo osserva, per cui ci vuole tatto e rispetto. Senza dimenticare che è un mezzo di comunicazione incisivo, con un impatto fortissimo sullo spettatore, per cui salire in palcoscenico e parlare ad una platea è una grossa responsabilità – se lo si fa per professione – e bisogna tenerne conto.>>

 

 

  • E perché il Teatro L’Istrione?

 

<<Il Teatro L’Istrione nasce proprio con quest’idea: mettere in primo piano la cultura, piuttosto che la commercialità. La scelta di non creare un luogo dall’aspetto convenzionale deriva appunto dalla voglia di abbattere ogni divisione scenografando l’intera sala come un vecchio cortile siciliano – opera realizzata dal mio maestro di scenografia Carmelo Miano, nonché primo Direttore Artistico de L’Istrione – così da mettere subito lo spettatore in un contesto che abitualmente appartiene solo a chi recita; oltre al fatto che i cortili storicamente rappresentano dei luoghi di assoluta familiarità e aggregazione tra il popolo. Altro motivo che ha caratterizzato questa scelta estetica è stato quello di creare un rimando all’ambientazione di quella mia prima e forse fortunata commedia di cui accennai poco fa, ambientata all’interno di un cortile chiamato Sant’Alfio e la cui scenografia fu sempre progettata e costruita da Miano.>>

 

  • Frequentando il Teatro, è palese l’affetto che il pubblico nutre nei suoi confronti …

 

<<Il pubblico è sacro e va curato e rispettato perché senza pubblico non potrebbe esistere la nostra professione. Credo che l’ambiente ristretto giochi molto a favore, perché porta lo spettatore in un clima di confidenzialità con chi recita, al punto che a volte – in base agli spettacoli – succede quello che succedeva nei Teatri tra gli anni ’60 e ’70, ovvero che il pubblico parli o commenti la vicenda rivolgendosi direttamente al personaggio. Quando aprii il Teatro, un caro amico – Armando Sciuto , direttore di scena storico del Teatro Stabile di Catania e suggeritore personale di Turi Ferro -, mi portò come buon auspicio un foglio di carta con una scritta che conservo ancora nella mia memoria come una legge: “Tutti portano gioia in questo luogo, alcuni entrando, altri andando via”.>>

 

 

  • E la famiglia che posto occupa nella sua vita?

 

<<Senza dubbio un posto fondamentale, sotto ogni aspetto. Pur non appartenendo ad una stirpe di teatranti, la mia famiglia mi ha sempre motivato e incentivato nell’intraprendere questo mestiere, complicato al giorno d’oggi. E’ proprio grazie ad essa che esiste il Teatro L’Istrione, poiché nello spazio in cui sorge esisteva un’attività appartenente ai miei familiari che la condividevano con altri soci. Successivamente la società si sciolse e insieme si prese in considerazione la mia ipotesi di prendere io in affitto il piano terra per far nascere un teatro. Senza di loro e senza il Maestro Miano, (l’unico a credere che quella mia prima commedia l’avessi davvero scritta io!), probabilmente non sarei riuscito a fondare un Teatro così giovane e li ringrazio per avermi sempre assecondato ed essere presenti nella mia vita e nel mio lavoro con il loro costante supporto.>>

 

  • Ha mai pensato al cinema e alla televisione?

 

<<Certo che sì! E ho anche avuto qualche esperienza ma poca roba purtroppo. E’ un ambito in cui non basta la bravura e basta guardare le varie fiction che si trovano in televisione per capire subito che il metro di giudizio non è sicuramente il talento; tutto costantemente soffiato come se nella realtà bisbigliassimo tutti, per non parlare delle fiction di mafia ambientate in Sicilia, dove i siciliani perlopiù fanno le comparse e i romani fanno i siciliani, con un modo di parlare che è un misto fra catanese, palermitano e chissà quale altra lingua, ma di sicuro qualcosa che in Sicilia non esiste proprio.>>

 

 

  • Il progetto più bello fra quelli che ha già realizzato e quello che vorrebbe ancora fare?

 

<<Eh… Bella domanda! Tra quelli prodotti da me sicuramente meritano un posto speciale nella mia vita privata e professionale: Copenaghen di Michael Frayn, con cui debuttai nel 2018 nei panni di regista ed interprete del fisico Werner Heisenberg e di cui ricevetti il permesso di rappresentazione dalla Compagnia Umberto Orsini che in quell’anno riprese lo spettacolo acquisendone l’esclusiva; Misura per Misura di William Shakespeare sempre da me diretto vestendo anche i panni di Angelo e senza alcun dubbio posso aggiungere La Musica dei Ciechi di Raffaele Viviani con cui ho appena debuttato in un’inedita trasposizione in siciliano da me curata e diretta, in cui interpretavo anche Don Alfonso insieme ad un gruppo di artisti straordinari. Naturalmente ci sono altri spettacoli non prodotti da me in cui ho lavorato e che mi hanno lasciato tantissimo come Troppu trafficu ppi nenti di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale che ne firmò anche la regia al Silvano Toti Globe Theatre di Roma, i due anni di tournée con Pensaci Giacomino di Pirandello diretto da Fabio Grossi con Leo Gullotta, così come il recente incontro con Mariano Rigillo ne La Vita è Sogno di Calderon De La Barca a Napoli. I progetti che mi piacerebbe un giorno realizzare sono tanti, uno tra questi è senza dubbio Il Visitatore di Schmitt che sogno di interpretare affianco a Leo  e un altro spettacolo con cui vorrei confrontarmi e che aspetto di fare da un po’ di tempo è Liolà con Mimmo Mignemi nei panni di Zio Simone. Per il momento, mi concentro però sul prossimo debutto al Teatro Stabile con I Racconti Della Peste diretto da Carlo Sciaccaluga e a seguire la mia prossima produzione de L’uomo Dal Fiore In Bocca.>>

 

“…la musica, signori! Questa è la musica dei ciechi…”