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UNA PRINCIPESSA CON LE MANI IN PASTA

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Nobildonna e maestra di cucina. Emanuela Notarbartolo di Sciara ha realizzato questo insolito connubio. E spiega i segreti di un invito di successo. Dal menù alla scelta degli ospiti

DI FIAMMETTA FADDA

Una principessa con le mani in pasta

A Emanuela Notarbartolo di Sciara in cucina piace fare da sé. Che sia per mettere a tavola i suoi otto nipoti e i loro amichetti, o qualcuno dei tanti amici famosi per titoli o per genio, o un centinaio di ospiti per qualche evento speciale, lei fa da sé. «Ho il mio metodo, non mi servono aiuti». Anche se quando la sua amica e principessa Giorgiana Corsini le ha chiesto di preparare un pranzo per mille invitati lei ha risposto: «Va bene, ma mi servono due persone per darmi una mano».
Questo suo metodo poi lo insegna, come altre nobildonne versate alla gastronomia, a scelti turisti desiderosi di sperimentare «the italian way» del ricevere. Non a caso Arrigo Cipriani confessa di aver imparato quasi tutto quello che sa dell’arte culinaria e dell’accogliere dalle sue clienti aristocratiche. Che è appunto la ragione per cui noi siamo venuti a trovare Emanuela Notarbartolo nella sua abitazione veneziana all’ultimo piano di Palazzo Albrizzi, uno dei più belli della città, con un magico giardino segreto chiuso tra le calli.
La padrona di casa ha imperiosi occhi azzurri e le cortesissime maniere di chi appartiene a una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia siciliana che nei secoli ha dato all’Isola personaggi illustri nelle cui case si mescolavano blasoni nobiliari, arte e industria e dove la cucina, sia nelle occasioni mondane e istituzionali sia nella vita di ogni giorno, aveva un ruolo importante. Con uno speciale upgrading grazie a Emma, madre di Emanuela, dotata di «mano e palato assoluti», autrice negli anni Trenta del ricettario La Cucina Elegante ovvero Il Quattrova Illustrato con disegni di Gio Ponti, di tale successo mondano che a un certo punto Gabriele D’Annunzio la invitò al Vittoriale: «Ma mia madre rifiutò, perché la fama del poeta era piuttosto discutibile».
Quegli anni, a Milano, dove allora viveva la famiglia, erano intellettualmente straordinari, ricchi di persone che si incontravano in casa per scambiare idee, fare musica, sedersi a tavola. «Mia madre di solito assumeva delle cuoche incapaci che, dopo qualche mese, sotto la sua guida diventavano bravissime. Ma a noi non era permesso mettere piede in cucina», ride la principessa. «E così quando mi sono sposata non sapevo cuocere nemmeno un uovo. La grande maestra che ha reso possibile il mio salto è stata una vecchia fattoressa in pensione, scovata da mio marito, che rischiava di morire d’inedia, nella campagna intorno a casa, a Pienza. Era un genio, capace di fare dei grandi piatti con niente. E io passavo ore in cucina a guardare, imparare, carpire segreti». Diventata bravissima, è stata la volta di Emanuela di pubblicare Il Gioco della Cucina con l’editore Passigli e, adesso, di rimettersi a tavolino per dimostrare
che «il bello della nostra cucina è che non ha bisogno di ingredienti costosi per essere straordinariamente buona».
Giusto. Una casa patrizia dotata di eccellenti «cuochi di famiglia» non ci avrebbe emozionato, quella di una giovane sposa passata da livello zero a insegnante richiesta da Londra a New York per snobissime lezioni di cucina, sì. A questo punto immaginavamo una cucina vasta e ipertecnologica. Invece ci siamo trovati al centro di pochi metri quadrati. Eppure da qui escono il Timballo del cardinale e la Torta al limone, piatti con una storia e una presentazione principesche. Che assaggeremo. Qual è il segreto? «Il mio metodo», dice la padrona di casa. «Eccolo: 1) Organizzazione, distribuendo gli spazi per un razionale svolgimento del lavoro, 2) Ordine, praticando il mantra «usa, lava, riponi», 3) Tempismo, osservando la sequenza esatta necessaria a eseguire ciascun piatto fino al gesto finale del forno o del freezer».
Intanto che la principessa prepara il Timballo, avanziamo altre domande. Il peccato mortale in un menù? «Ripetere gli stessi ingredienti». E in un invito? «Mettere insieme persone che non si amano». I suoi ristoranti preferiti in città? «Le Vecchie Carampane, un classico; Al Ponte Storto, una trattoria vera; Da Ignazio, la gioia di un pergolato». Ah, e cosa pensa dell’Harry’s Bar? «Sul tavolo in fondo a sinistra c’è una targhetta che dice “riservato ai senatori”. Erano i grandi veneziani che ogni giorno alle 11,45 si trovavano lì a prendere l’aperitivo. Mio padre Marco non mancava mai all’appuntamento». A tavola, il timballo è una festa degli occhi e del palato.

Fonte: La Cucina Italiana