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Un anno dopo, la verità sugli errori iniziali della Cina con il coronavirus

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AGI – Lentezze nella diagnosi dei contagi, un sistema di conteggio in evoluzione e poco chiaro, una sostanziale mancanza di preparazione delle autorità sanitarie locali, prive di fondi e soffocate dalla burocrazia, e la sovrapposizione di un’epidemia di influenza sono alcuni degli elementi che hanno contribuito a generare confusione nella fase iniziale dell’epidemia di Covid-19 in Cina. 

Lo rivelano 117 pagine di documenti interni e marcati come “confidenziali” dal Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie della provincia dello Hubei, dove si trova Wuhan, la cui autenticità è stata verificata da sei esperti indipendenti per conto della Cnn, che definisce il dossier il più voluminoso corpus di documenti fuoriusciti dalla Cina dall’inizio della pandemia. 

I file coprono il periodo compreso tra ottobre 2019 e aprile scorso, e pur senza fornire una prova diretta di un tentativo delle autorità cinesi di insabbiare la reale entità dell’emergenza sanitaria, rivelano nuove incongruenze sulla gestione dell’epidemia nella prima fase, e le pressioni burocratiche a cui è stato sottoposto il sistema sanitario locale. 

La Cnn dichiara di essere entrata in possesso dei documenti riservati grazie all’aiuto di un informatore del settore sanitario animato dalla volontà di fare chiarezza sullo scoppio dell’epidemia in Cina e di rendere omaggio ai colleghi che per primi hanno rivelato la presenza del virus in Cina, come Li Wenliang, il medico-eroe di Wuhan, il primo ha lanciare l’allarme su un nuovo coronavirus simile a quello della Sars, e che venne censurato prima della riabilitazione post-mortem. 

Il 10 febbraio scorso, quando il presidente cinese Xi Jinping comparve per la prima volta con la mascherina sul volto e si sottopose allo screening della temperatura corporea presso un centro per la prevenzione e il controllo dell’epidemia a Pechino, il totale dei contagiati dalla malattia in seguito definita Covid-19 nello Hubei, era di 5.918, ma il numero complessivo non venne mai divulgato dalle autorità cinesi, che fermarono il conteggio ufficiale dei nuovi casi accertati a quota 2.478.

Un sistema confuso di conteggio, che divideva i “casi accertati” da quelli “clinicamente diagnosticati” con l’utilizzo della Tac e quelli “sospetti”, ha aggiunto incertezza sulle dimensioni reali dell’epidemia nella prima fase, portando le autorità a diffondere dati prudenti, o troppo prudenti, al punto da non rispecchiare correttamente l’emergenza.

Nonostante il progressivo miglioramento del sistema di calcolo, anche in un altro giorno, il 7 marzo scorso, si sono rivelate discrepanze: il numero ufficiale di decessi dall’inizio dell’epidemia era di 2.986, ma il rapporto interno consultato dalla Cnn parla di 3.456, tra cui 2.675 confermati e 647 contagiati considerati “clinicamente” morti, oltre ad altri 126 casi di decessi “sospetti”.

In generale, dall’inizio dell’epidemia a quella data, il numero di decessi ufficiali corrispondeva all’86% dei morti reali per il Covid-19. Dai documenti emerge, poi, anche la difficoltà di rilevare nella fase iniziale i casi positivi al coronavirus, con un alto tasso di falsi negativi all’inizio di febbraio scorso e la decisione delle autorità di testare più volte i casi sospetti.

La Cina ha sempre difeso la gestione dell’epidemia e a giugno scorso il Consiglio di Stato, il governo cinese, ha pubblicato un Libro Bianco in cui definiva “tempestivo, aperto e trasparente” l’operato delle autorità sanitarie. I nuovi documenti mettono a nudo una realtà alquanto diversa, a cominciare dalla lentezza nella diagnosi che ha minato gli sforzi nella lotta contro la malattia, con 23,3 giorni di media dal comparire dei sintomi all’accertamento della contrazione del coronavirus.

Da una revisione interna contenuta nei documenti emerge, già prima dello scoppio dell’epidemia, a ottobre 2019, uno scenario caratterizzato da una mancanza di preparazione per affrontare un’eventuale emergenza, una scarsità di fondi destinati alle autorità sanitarie locali, e di personale motivato a rispondere alla crisi che si stava profilando. In più, il Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie dello Hubei non avrebbe avuto un ruolo guida nella lotta all’epidemia, ma avrebbe solo “completato passivamente il compito assegnatogli dai superiori”.

A rendere ancora più complicato il quadro sanitario è intervenuta – contemporaneamente all’emergere della malattia che sarebbe stata definita in seguito Covid-19 – anche un’altra epidemia, di influenza, che si è fatta sentire soprattutto in alcune città vicine a Wuhan, come Xianning e Yichang, anche se non emerge un legame diretto tra le due epidemie dai documenti consultati dalla Cnn.

Il rapporto reso pubblico oggi giunge a un anno esatto dal primo caso accertato di coronavirus secondo uno studio di Lancet: i documenti citati dalla Cnn dimostrerebbero che non era stato previsto come esito quello di una pandemia. Lo scenario più catastrofico prevedibile non andava oltre lo scoppio di un’epidemia più contenuta, come avvenuto nel 2002-2003 nel caso della Sars.

Anche in assenza di errori commessi dalle autorità sanitarie locali cinesi, non sarebbe, però, forse stato possibile evitare il dilagare del coronavirus, secondo Yanzhong Huang, esperto di sanità pubblica presso il Council on Foreign Relations. Gli errori, ha spiegato lo studioso alla Cnn, “hanno avuto conseguenze globali. Non si può mai garantire il 100% di trasparenza. Non si tratta soltanto di un intenzionale insabbiamento, si è anche limitati dalla tecnologia e da altre questioni riguardanti un nuovo virus. Anche se fossero stati trasparenti al 100%”, prosegue l’esperto, “questo non avrebbe fermato l’amministrazione Trump dal minimizzarne la serietà. E non ne avrebbe probabilmente fermato lo sviluppo in una pandemia”.

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Fonte: estero agi


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