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Todd Reid campione di tennis a 18 anni, fallito a 21, muore a 34. Deluso da se stesso…

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Il fantasma del palcoscenico tennis si chiama Todd Reid. Il suo nome rimarrà scolpito come campione di Wimbledon juniores 2002, ma soprattutto come uno dei tanti che non ce l’ha fatta a realizzare le proprie e le altrui aspettative, che ha insistito, che è rimasto prigioniero di un sogno, che è crollato, e che addirittura morto, solo, disperato, perso, ad appena 34 anni.

Perché? La diagnosi resta vaga, nessuno pronuncia “quella” parola. Anche se gli occhi di parenti ed amici, i messaggi, i twitter, i saluti sono troppo impregnati di lacrime e di sensi di colpa per lasciar spazio al dubbio e, in calce alla triste notizia, gli organi d’informazione australiani comunicano: “I lettori che cercano supporto e informazioni sulla prevenzione del suicidio possono contattare la linea aperta 131114”.

Che inferno è stato per il povero Todd Reid il percorso dai 18 ai 34 anni? Dall’acme di quell’urrà così promettente, nel Tempio, dalle vittorie contro Gasquet, Tipsarevic, Soderling e Muller, è volato al numero 105 dei pro a 20 anni nel 2004, ma poi è apparso sempre meno sull’Atp Tour fino a sparire definitivamente. Sintetizza Todd Woodbridge, campione di doppio e di umanità: “Non sapremo mai quanto qualcuno possa soffrire. Preghiamo per Todd e la sua famiglia”.

I campioni italiani

Anche in Italia abbiamo avuto due campioni di Wimbledon juniores, peraltro tutti e due mancini, Diego Nargiso, nel 1987, e Gianluigi Quinzi nel 2013. Il napoletano ha trovato solo parzialmente la sua realizzazione da pro, toccando il numero 67 della classifica, con 5 titoli di doppio, il marchigiano, a 22 anni, ha forse trovato la sua strada, dopo troppi cambiamenti tecnici, ed è numero 161 del mondo. Entrambe hanno avuto sempre accanto una famiglia molto appassionata di tennis, molto vicina ed anche benestante, che potesse sostenerli finanziariamente. Che ha attutito il contraccolpo all’impatto con aspettative non rispettate compiutamente. 

Diego, oggi affermato telecronista e imprenditore nel tennis, è sempre stato molto lucido anche nell’auto-analisi: “Il problema è che a 17 anni non sei ancora pronto ad affrontare la realtà immediata, che è estremamente diversa da quella che ti ero aspettato quando, come me, hai alzato il trofeo giovanile di Wimbledon sul Centre Court, premiato da Margaret Thatcher e dalla duchessa di Kent, e ti aspetti presto di fare la stessa cosa anche a livello seniores. Purtroppo questi trofei sono troppo enfatizzati dalle federazioni sportive nazionali che li usano per incentivare i ragazzi ed aumentare le loro motivazioni. Ma io credo che, per restituirli alla loro giusta dimensione e conferire la corretta importanza a questi eventi giovanili sarebbe più giusto farli disputare altrove, non nella sede del torneo maggiore”.

"Il problema è la paura"

Il problema si chiama paura. Spiega sempre Nargiso, che l’ha vissuto sulla propria pelle: “Dopo un grande risultato, sul ragazzo si riversano interessi e anche speculazioni, per cui le aspettative diventano pressione, ansia, frustrazione di non riuscire ad ottenere risultati anche da professionista. Può succedere immediatamente e può succedere dopo un po’, com’è accaduto a me che sono subito salito fra i primi 100, ma poi ne sono uscito”. E che succede in quei momenti? “Succede che ti senti solo, come un cantante che ha inciso un disco di successo e che poi deve ripetersi, se non migliorarsi. Il momento clou è quando – succede sempre – ti cominci a fare delle domande: “Ce la faccio, non ce la faccio, sto fallendo?”.

Ed è un momento devastante, nel quale è fondamentale avere accanto una famiglia e anche un substrato culturale, altri interessi, altre cose, che ti aiutano a superare la paura del fallimento e quindi la depressione che ne consegue. Io, a 50 anni lo so, ma a 17 non sapevo, non potevo sapere che quella era una parte della vita non tutta la vita. Ed è capitato anche a me di vivere male il tennis. Anche nel corso della partita mi è successo di chiedermi: “Che cosa dirò dopo ai giornalisti, come spiegherò che non ce l’ho fatta?”. Così cresci il sentimento di amore ed odio verso il tuo sport”.

Il ricordo dell'amico Ryan Henry

Per spiegare un pò la storia specifica del povero Todd Reid è sceso in campo il suo amico Ryan Henry che lo conosceva dai 10 anni, e ci ha giocato insieme tantissimo, captandone da subito l’estremo agonismo, la forte ambizione di arrivare in alto, lo sfrenato desiderio di vincere, la grande dedizione, la spiccata competitività, simile all’idolo di tutti i teenagers locali, Lleyton Hewitt: “Era estremamente veloce, molto consistente e un gran lottatore”. Peccato che si allenasse poco sulla tecnica, “convinto di poter compensare in partita con l’attitudine, con la voglia di vincere”.

Reid arrivò al numero 4 del mondo di categoria, quando l’1 era Tipsarevic, e gli altri primattori si chiamavano Robin Soderling, Tomas Berdych, Jo-Wilfried Tsonga, Marcos Baghdatis, tutta gente che sarebbe entrata di lì a poco nei “top 10” pro. Aveva la capacità di ottenere il massimo da sé stesso nei momenti topici, era il migliore dei giovani australiani, quello su cui tutti puntavano, quello che faceva gli stage alla Nick Bollettieri Academy in Florida, la stella cometa. Era. A 19 anni, le strade dei due amici si divisero per sempre: Ryan abbandonò il suo sogno, afflitto dagli infortuni, diventando maestro di tennis, e perse di vista Todd, chiedendosi se fosse stato giusto abbandonare la scuola e una educazione corretta per dedicarsi totalmente allo sport, ma trovando comunque ottime guide nei fratelli Masur.

Il declino

Invece Todd ha inanellato un fallito tentativo di rientro sul circuito pro dopo l’altro, s’è ammalato, s’è infortunato al braccio, ha perso il servizio, ha addirittura battuto da sotto, nei primi turni dei tornei per preservare la spalla, senza accettare che il corpo non gli consentisse di esprimere il buon livello di tecnica. Entrando in una impressionante spirale di sfiducia e frustrazione, come racconta ancora Henry: “Quando l’ho incontrato l’ultima volta, a gennaio al torneo di Sydney, è stato duro constatare quant’era stata difficile per lui la vita dopo il tennis, era molto triste vedere che non era più la persona che conoscevo. Prima era sempre gioviale e simpatico, sempre pronto a scherzare anche in allenamento”.

Dicono che i cantanti siano i poeti della nostra epoca. Ci torna in mente: “Se ti diranno sei finito, non ci credere. Devi contare solo su di te. Uno su mille ce la fa. Ma quant’è dura la salita". Dovrebbe accompagnare anche tanti dirigenti, ex atleti, quando guardano gli eroi dello sport moderno. Loro sanno bene che si paga sempre un prezzo nella vita e hanno il dovere morale di aiutare gli eredi. Perché Todd Reid, ahinoi, non è solo, lo troviamo ovunque, ma chi gli ha teso una mano?

Vedi: Todd Reid campione di tennis a 18 anni, fallito a 21, muore a 34. Deluso da se stesso…
Fonte: sport agi


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