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TikTok e pistola, la battaglia di Trump

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AGI – TikTok e la pistola, l’alluminio e il vaccino, la Bibbia e la Colt. La campagna presidenziale americana sta per entrare nel giro finale di giostra, è in piena accelerazione, da qui al 3 novembre gli ordini esecutivi e le iniziative del presidente si moltiplicheranno, come sempre accade. I fronti aperti da Trump si direbbe che sono troppi per un uomo solo, ma siamo di fronte a una sagoma politica imprevedibile. Andiamo avanti, con un po’ di ordine, per quanto possibile.

Il presidente ha firmato due ordini esecutivi che impongono alle aziende americane di bloccare tutti i rapporti con TikTok e WeChat. Entro 45 giorni tutti i fili con le due società cinesi vanno tagliati, chi non si adegua andrà incontro alle sanzioni. Microsoft è in pista per l’acquisto di TikTok, il negoziato è aperto, si chiude entro il 15 settembre, la società fondata da Bill Gates punta a conquistare tutto il piatto sul tavolo da poker del social network, non solo le divisioni operative negli Stati Uniti, in Australia e Nuova Zelanda, Satya Nadella, Ceo di Microsoft punta all’acquisto dell’intera impresa. Vedremo presto se il colpo riuscirà, Microsoft non è più Windows, dalla finestra di Nadella si vede un panorama diverso, sta per cambiare la mappa mondiale dei social network.

L’effetto dell’ordine esecutivo di Trump sul mercato è micidiale, le azioni di WeChat quotate a Hong Kong sono crollate del 10%, prima dell’annuncio della Casa Bianca (e della presentazione di Mike Pompeo del piano sulle “Reti Pulite”), Tencent viaggiava a livelli record con una capitalizzazione pari a quella di Facebook, l’indice Hang Seng è in rosso a -2%. In questo scenario di battaglia, l’oro continua a macinare record, lo spot gold è a quota 2,058 dollari l’oncia.

Un piano in 5 punti

L’offensiva contro la Cina è ampia, si gioca su più piani e tra repubblicani e democratici la differenza su questo punto è una questione di sfumature, ma sul nocciolo della questione – lo spionaggio di Pechino – le due famiglie della politica americana vanno d’accordo. Tanto che il Senato ha approvato all’unanimità alla legge che vieta l’uso di Tik Tok sui dispositivi di tutti i dipendenti federali. Siamo nella fase del “Clean network”, l’operazione Reti pulite, una campagna che ha come obiettivo principale il Partito comunista cinese e il suo leader, Xi Jinping. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha spiegato il piano in cinque punti:  

Clean Carrier: evitare che gli operatori di telecomunicazioni della Cina siano collegati con le reti degli Stati Uniti.

Clean Store: rimuovere le app cinesi dai negozi online di applicazioni mobili degli Stati Uniti. Pompeo dice che “le app della Cina minacciano la nostra privacy, moltiplicano i virus e diffondono propaganda e disinformazione”, dunque “le informazioni personali e aziendali degli americani devono essere protette”.

Clean Apps: evitare che i produttori di smartphone cinesi pre-installino o rendano disponibili applicazioni non sicure. Pompeo fa un riferimento diretto a Huawei e ai suoi rapporti con le aziende americane: “Queste aziende dovrebbero rimuovere le app di Huawei per assicurarsi di non essere partner di un utente che viola i diritti umani”. Il passaggio di Pompeo non è casuale, sta prefigurando una possibile azione dell’amministrazione americana su chi collabora con l’azienda cinese.

Clean Cloud: qui l’obiettivo dichiarato è quello di impedire l’archiviazione di dati su server accessibili a società come “Alibaba, Baidu e Tencent”. Attenzione all’esplicito riferimento fatto dal segretario di Stato sulla ricerca scientifica e il vaccino anti coronavirus, segnala la dura competizione in corso, chi arriva prima sulla cura, domina il mondo.
   
Clean Cable: la sicurezza dei cavi sottomarini, l’infrastruttura di Internet, un tema strategico, politica globale.

Questo piano ha bisogno di alleati in tutto il mondo – fatto ricordato da Pompeo che ha sollecitato i paesi e le aziende a coalizzarsi – e gli Stati Uniti stanno lavorando per isolare la corazzata tecnologica cinese. Che cosa è tutto questo? Un capitolo fiammeggiante della cyberguerra tra Washington e Pechino.

Da Internet alla Bibbia è questione di un passaggio sull’Air Force One, Trump è volato a Cleveland, in Ohio. Qui c’era un governatore, Mike DeWine, positivo al coronavirus (primo test) che ora non c’è più (secondo test, negativo), per tutto il resto c’è Trump che si avventura nel campo della religiosità niente meno che di Joe Biden.

Dunque, se il suo avversario venisse eletto “ferirebbe la Bibbia, farebbe male a Dio”. Di tutto questo nell’Europa dei Lumi si sorride, ma qui siamo nell’America del Midwest, in Ohio, lo Stato che spesso ha deciso le elezioni presidenziali, quasi 12 milioni di abitanti, 16 seggi alla Camera. Trump la mette giù piatta, dunque Biden “è contro Dio, è contro le pistole, è contro l’energia, il nostro tipo di energia. Non credo che andrà molto bene in Ohio”.

L’eleganza retorica e il bon ton istituzionale non fanno parte dell’universo di Trump, egli esagera con regolarità (fin troppo, aggiungiamo) e raramente si pente e si scusa per le sue esondazioni, fare campagna in Ohio per Trump (e chiunque altro, a parti inverse) non è citare Alexis de Tocqueville. Dallo staff di Biden la risposta è composta (fin troppo) e nella tremenda sfida a colpi di clava diventa un punto a favore del candidato dem: l’ex vicepresidente, cattolico, fa sapere che la religione è stata “una fonte di forza e conforto in tempi di enorme difficoltà”. Il riferimento è alla dolorosa storia personale di Biden che nel 1972 ha perso la prima moglie e la figlia di un anno, un incidente in automobile, mentre il figlio Beau è morto di tumore a 46 anni, nel 2015.

Corsa contro il tempo

Trump ha l’orologio che lo insegue, meno di tre mesi di tempo per recuperare terreno, la commissione elettorale ieri ha detto no alla sua richiesta di organizzare un quarto dibattito con Biden, il candidato dem ha una strategia di basso profilo, è semi-silente e in immersione rapida, fa il minimo indispensabile, lascia che siano il coronavirus e la crisi economica a logorare Trump. Il presidente non può far altro che sparare tutte le cartucce che ha disposizione e rispolverare i dazi dove c’è da raccogliere i voti di chi lavora nella manifattura.

Arrivano cattive notizie per il premier canadese Justin Trudeau (i due si detestano, Trump lasciò infuriato il vertice della Nato a Londra, nel dicembre 2019, dopo aver visto sui social una scenetta rubata di Trudeau che lo prendeva in giro parlando con Emmanuel Macron e Boris Johnson), Trump ha annunciato che bisogna “difendere il nostro alluminio” e naturalmente “il Canada si è approfittato di noi, come al solito” e ha cercato di “uccidere tutti i nostri posti di lavoro nell’alluminio”. Traduzione: + 10 per cento di dazi sull’alluminio canadese. Risposta dal governo del Canada: “Prenderemo contro-misure, dollaro su dollaro, “i dazi sono inaccettabili”, ha detto la vicepremier Chrystia Freeland. Voilà, un’altra guerra commerciale. Avviso alla Casa Bianca dalla Camera di Commercio americana: “I dazi faranno salire i costi di produzione per la manifattura americana e porteranno a una reazione contro le esportazioni”. Per Trump questo ora non conta, si vota, è a caccia del consenso dell’elettorato che gli consegnò la presidenza nel 2016. Sistemato il paragrafo del Canada, il suo copione torna al capitolo della Cina, accusata di fare “dumping” e invadere il mercato con le sue lavatrici a basso costo (il presidente è sempre a Clyde, nella fabbrica di Whirpool). La politica è (anche) una centrifuga.

L’America e le armi

Che cosa è l’America? Un tempo si diceva che era la Bibbia, la forca e la Colt. Gli Stati Uniti sono nati così, con la legge di Dio e quella degli uomini, la misericordia (poca) e il piombo (tanto), la conquista del West non fu solo una questione di cavalli e strade ferrate, ranch e piccole città, basta dare un’occhiata alle pagine della storia e della letteratura. Winchester vendeva il suo fucile modello 1873 con questo slogan: “The Gun That Won the West”. Il presidente Teddy Roosevelt possedeva il modello 1895, disegnato da John Moses Browning (sì, quello delle pistole) e lo chiamava “big medicine”. Con questa “cura” in spalla andò nel 1909-1910 in Africa, un safari organizzato con lo Smithsonian che passò alla storia.

Le armi sono una presenza fissa in un paese che non è quello delle case eleganti di New York e San Francisco, ma una terra di mezzo dove il pericolo ha molte forme, compresa quella di chi le armi le possiede e ha il grilletto facile.

Chi produce armi in America ha soldi e voti, questo basta e avanza per ottenere tutta l’attenzione della politica. E della giustizia. Da New York è piovuta una notizia destinata a muovere la pubblica opinione e spostare consensi: la procuratrice Letitia James (la stessa che ha indagato sulla fondazione Trump) ha chiesto lo scioglimento della National Rifle Association, l’associazione che difende il diritto di produrre e possedere armi, cinque milioni di iscritti, una delle lobby che fa sentire il suo peso massimo a Washington. La Nra sostiene Trump nella corsa presidenziale (come nel 2016) e l’inchiesta di fatto è anche un attacco diretto alla base di potere del presidente.

Una lobby ricca e potente

L’associazione è ricchissima, ha un bilancio di oltre 400 milioni di dollari, le accuse sono pesanti: distrazione dei fondi dell’associazione per scopi privati del gruppo dirigente, 64 milioni di dollari sarebbero evaporati in tre anni, la ragione sociale che da senza scopo di lucro è passata a guadagno per pochi intimi. Soluzione? Dissoluzione.

La richiesta di scioglimento della Nra ha alzato la palla a Trump, lui fa quello che deve fare, va sotto rete e schiaccia: “Penso che la Nra debba trasferirsi in Texas e lì che si troverebbe davvero bene. È una cosa molto terribile quella appena accaduta”. Il problema è che l’associazione è la trincea del secondo emendamento della Costituzione americana, quello che recita: “Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare Armi non potrà essere infranto”.

I sostenitori della sua abolizione dicono che è obsoleto, il frutto del contesto storico (correva l’anno 1789), solo che in America la Costituzione è una cosa seria, un totem, si discute ma non si tocca, si interpreta, ma non si manipola, le scuole dei giuristi si classificano in base alla visione espressa sulla Carta dei Padri Fondatori: ci sono gli “originalisti” e i “progressisti”, l’eterno conflitto tra i conservatori e gli evoluzionisti della Costituzione, l’impatto di un originalista come Antonin Scalia – trent’anni alla Corte Suprema – è stato enorme nella vita degli americani. I casi concreti della giustizia, dal “legal process” al “law making”, dal verdetto di un giudice alla scrittura di una legge, sono penetrati dalla dottrina in maniera esplicita, il “case book” è la base dei processi, il lavoro interpretativo dei giudici della Corte Suprema è di enorme fascino scientifico.

La battaglia sul secondo emendamento

La battaglia sul secondo emendamento tocca i pilastri della nazione americana. Il sistema è chiaro, ha una sua logica ferrea: ci sono le leggi del Congresso, gli ordini esecutivi del Presidente e le decisioni della Corte Suprema, questo agli Stati Uniti basta e avanza. Il diritto di possedere armi è una bandiera dei repubblicani (e qualcuno ricorda che lo è anche dei democratici che non abitano in città), cambiare l’atto di nascita degli Stati Uniti d’America è un’impresa, finora non è riuscita a nessuno, neppure all’uomo del “change”, Barack Obama.

L’arma vincente? Il vaccino anti-Covid

Costretto a inseguire, a fare una campagna elettorale da “underdog”, a meno di tre mesi dal voto, Trump spera nella “October Surprise”. Quale? Il vaccino – il timore dei Democratici – e “accadrà prima di quanto si pensi, avremo un vaccino molto presto, si spera molto prima della fine dell’anno”, ha ribadito ieri Trump. La politica è anche questo, ripetere all’infinito un desiderio sperando che appaia come reale.

In attesa del vaccino, ci sono segnali – come fa notare anche John Authers su Bloomberg – che danno il senso di quanto la corsa per la Casa Bianca sia ancora aperta: Biden non ha ancora scelto la vicepresidente che lo accompagnerà nella  parte finale della campagna presidenziale (e ogni nome ha i suoi pro e contro, si espone più o meno agli attacchi dei repubblicani), nella media di RealClearPolitics il vantaggio del democratico è ancora alto (+6,4 punti), ma viaggia sotto un non confortevole 50% e Trump sta risalendo (è passato dal 40% del 2 luglio al 42,7% del 5 agosto), le possibilità che i Dem vincano al Senato sono più alte di quanto lo sia una vittoria alla Casa Bianca, i numeri di Gallup sull’approvazione del lavoro sono sempre bassi, ma di nuovo in aumento e sopra il 40%.

Biden è favorito, senza dubbio, ma la partita resta più aperta di quanto si immagini. Se l’economia torna a correre (i dati pubblicati ieri sulle richieste dei sussidi di disoccupazione sono i più bassi dallo scoppio della pandemia, in marzo, 1,186,000 iscritti nel fine settimana del 1° agosto, 249 mila in meno), la vittoria annunciata di Biden sparisce. C’è sempre il timore di una seconda ondata del coronavirus con l’arrivo dell’autunno e lo spettro di un altro lockdown. Su questo punto Anthony Fauci dà una mano a Trump: “Non devi per forza chiudere tutto di nuovo, ma tutti devono essere d’accordo nel seguire cinque o sei regole fondamentali per la sanità pubblica, possiamo superare questa situazione senza dover tornare indietro ad un nuovo lockdown”. Messaggio ricevuto, Trump in Ohio indossava la mascherina.

Vedi: TikTok e pistola, la battaglia di Trump
Fonte: estero agi


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