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Siria, guerra civile senza fine

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Con gli occhi del mondo puntati sull’Ucraina, il rischio di sottovalutare la situazione rimane elevato, considerando il costante disinteresse da parte dei media nel riportare le notizie e il totale silenzio dell’ONU nei confronti degli ultimi episodi che rischiano di portare ad una nuova escalation un conflitto sanguinoso che si trascina da più di dieci anni. Il ruolo delle potenze straniere

di Giuseppe Accardi

Nel passare in rassegna le molte guerre che insanguinano il mondo, pare necessario e doveroso soffermarsi, se pur in maniera rapida e celerrima, sulla questione siriana e riportare al centro del dibattito un conflitto che da più di un decennio sta inesorabilmente producendo una scia di violenza, morte e miseria.

Al fine di inquadrare meglio la situazione, occorre procedere a ritroso, attraverso un’analisi di tipo storico-antropologico che faccia luce sulle numerose criticità ed ombre che avvolgono questo paese.

Con lo sfaldamento della Repubblica  Araba Unita nel 1961, seguita da  numerosi tumulti e colpi di stato (1963) si instaurò in Siria, dopo la fine della guerra dei sei giorni, il governo del partito panarabo-socialista  Ba’th, con a capo Hafiz al-Assad, che  nel 1970 assunse il titolo di presidente della Repubblica Siriana.

Da subito l’appoggio dell’URSS permise numerose riforme infrastrutturali ed economiche di stampo sovietico, come la pianificazione dell’economia nazionale attraverso piani quinquennali, del tutto in contrasto con le potenze occidentali e l’economia di mercato.

Tutto ciò  modellò nel tempo la struttura socio-economica siriana, rendendola di fatto un avamposto sovietico a tutti gli effetti, socialista e laico almeno fino agli anni ’90.

L’avvicinamento all’occidente capitalistico avvenne tre decenni orsono, a seguito della collaborazione e del sostegno siriano nell’operazione Desert Storm in Iraq contro Saddam Hussein.

Alla morte del Presidente Hafiz, suo figlio Bassar, nominato successore nel 1999, prese le redini del governo e venne eletto Presidente, attraverso un emendamento che abbassò l’età minima necessaria per l’elezione.

Il tutto sfociò in  dissidi interni e rivolte esterne, come quelle legate all’indipendentismo curdo, che fin da subito svelarono la linea politica del neo-presidente, poco incline a cambiamenti e modernizzazione e più propenso a mantenere una linea rigida, personalistica, del tutto intollerante verso il dissenso e l’opposizione.

Con lo scoppio delle Primavere Arabe in Tunisia, Egitto e Libia, le proteste cominciarono a farsi largo anche in Siria e nel 2011 migliaia di siriani scesero in piazza per manifestare contro il governo in favore delle dimissioni del presidente.

All’inizio del 2012 il paese si trovava già in una vera e propria guerra civile, con scontri nelle principali città, come Damasco ed Aleppo, che videro schierati da una parte i ribelli sunniti, raggruppati in diversi gruppi armati e facenti parte dell’Esercito Siriano Libero (ESL), sostenuti dai paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Qatar, oltre che dalla Turchia.

Dall’altra parte invece, le forze armate sciite siriane vennero appoggiate dall’Iran, storicamente alleato strategico del presidente Assad e più in generale del partito Ba’th, considerato l’unico capace di tenere a freno i gruppi radicali fondamentalisti, intenzionati ad instaurare la cosiddetta Shari’a in Siria.

Nel 2013 la guerra si propaga ed un attacco chimico nei confronti dei ribelli di Ghuta si trasformò in un’occasione per un ulteriore allargamento del conflitto nello scacchiere internazionale, dacché il governo siriano venne accusato di un utilizzo improprio di armi proibite dalle convenzioni.

Da questo momento in sede ONU assistiamo ad una spaccatura all’interno del Consiglio di Sicurezza, infatti Regno Unito, Francia e USA, esprimono l’intenzione di appoggiare i ribelli, di tutt’altro avviso invece Russia e Cina, pronte ad intervenire a fianco del governo ‘legittimo’.

Dopo un lungo faccia a faccia tra le potenze del Consiglio, si giunge ad un accordo diplomatico tra le parti attraverso la Risoluzione ONU 2118 che ha come obiettivo lo smantellamento delle armi chimiche siriane.

Ma l’evoluzione del conflitto non accenna ad arrestarsi, infatti, all’interno della compagine ribelle, cominciano a guadagnare terreno le forze fondamentaliste sunnite che insieme ai Jihadisti affiliati ai Al Qaida si distaccano dal ESL e vanno a formare lo Stato Islamico, meglio noto con l’acronimo di ISIS, che già dal 2014 proclama la nascita del Califfato nella vasta area conquistata (Iraq -Siria).

Da qui in poi risultano innumerevoli le testimonianze di violenze e omicidi perpetrati sul territorio in nome della Shari’a e l’escalation del conflitto torna vivo anche in sede internazionale con le maggiori potenze pronte ad intervenire.

Nonostante molteplici indiscrezioni riguardanti la fornitura di armi da parte degli Stati Uniti ai ribelli fondamentalisti, i primi ad intervenire furono proprio gli americani, con una serie di bombardamenti a tappeto ed attacchi aerei, ma fu solamente grazie all’intervento di Regno Unito prima e Russia poi che il governo Assad riuscì a mantenere il controllo nelle zone strategiche come Aleppo, liberata nel 2016.

L’intervento della Russia, postumo al consenso di Assad ed ai sensi del Diritto Internazionale, ha contribuito negli anni al mantenimento del territorio e dei punti chiave fino a riuscire nel 2018 a liberare Damasco, dopo più di 7 anni di conflitto.

Tuttavia ancora oggi dopo una decade di morte e violenza, la situazione rimane pressoché critica ed i continui attacchi in Siria, stavolta messi a segno da Israele per contrastare l’Iran e Hezbollah, rischiano di sconvolgere ulteriormente il paese e fomentare la guerra.

Con gli occhi del mondo puntati sull’Ucraina, il rischio di sottovalutare la situazione rimane comunque elevato, considerando il costante disinteresse da parte dei media nel riportare le notizie e il totale silenzio dell’ONU nei confronti degli ultimi episodi che rischiano di portare ad una nuova escalation.

 

(Foto GettyImages)