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Quello che Facebook deve fare per diventare un bel posto dove stare

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Il 2 settembre la ricercatrice Jane Cancun Wong pubblica sul suo blog (seguitelo, è fondamentale) la notizia dell’intenzione di Facebook di nascondere il numero dei like sotto i post pubblicati dagli utenti. Ovvero, Menlo Park avrebbe messo in cantiere gli stessi test già attivi, anche in Italia, su Instagram. L’idea di Zuckerberg è quella di far sì che gli utenti prestino più attenzione alle foto, ai contenuti e meno ai numeri; far sì che gli utenti limitino la pubblicazione di post, evidentemente inutili, ma capaci di far man bassa di like. Insomma, combattere quel “postaggio” selvaggio che sta trasformando i social network in un “postaccio” e, nei casi verbalmente peggiori, un luogo di “pestaggio”.

Sono 6 giorni che il cervello si arrovella per capire le possibili conseguenze di quest’azione. E non parlo di marketing, advertising e ricadute economiche su chi, nelle piattaforme social, investe un mucchio di quattrini. Voglio rimanere, in questo discorso, sullo stesso piano enunciato da Instagram e Facebook. Quello etico, dei buoni contenuti.

Quel che la mia mente ha prodotto, infine, è un suggerimento che potrebbe risultare, lo ripeto, a fini etici ed educativi più efficace di quello che questi social stanno mettendo in pratica. Lasciamo stare i like, per una volta. A differenza di Instagram, le critiche che girano intorno al mondo di Facebook sono di carattere più informativo: il fenomeno delle fake news, ovviamente, l’estremizzazione della propaganda elettorale, il clickbaiting, la ricerca estrema di “engagement”. Tutto vero, ma il problema principale di Facebook, oggi, sono i commenti. Tutti si sentono obbligati di scrivere, insultare, litigare, umiliare parole e linguaggi con sgrammaticature insistenti. Facebook ha sensibilmente degradato il concetto antico di dialogos. Ed è qui che vorrei intervenisse Zuckerberg: lasciamo stare i like, davvero, ma cancelliamo dalle pagine la possibilità di postare commenti pubblici. E vediamo che succede.

Non chiamatela censura

Smarchiamo ogni possibile riferimento a “vuoi tapparci la bocca”. No. I commenti nei profili personali devono essere preservati e mantenuti: siamo amici, tu scrivi una cosa, io ti rispondo. Se mi accorgo che siamo incompatibili esco dalla tua cerchia e tanti saluti. Questo, d’altronde è un desiderio spesso ripetuto dallo stesso Zuckerberg: “Il futuro è privato”. Nuovo motto, vecchia filosofia.

Rimarrebbe anche la possibilità di mandare messaggi privati agli amministratori delle pagine: customer care, non ti voglio certamente eliminare. Lamentele, richiesta di più info, suggerimenti. Canale diretto, utile, e una conversazione iniziata con uno scopo. Chi è, infatti, che continuerebbe, senza stancarsi, a insultare una persona che sta dall’altra parte del vetro di internet se nessuno può sentire o vedere le sue imprecazioni? Un po’ come la metafora dell’albero che cade senza che nessuno lo senta e ci si chiede se fa rumore o no. Versione Facebook, of course, che fa perdere ogni magia ma ci aiuta a capire come funziona lo sbraitare online.

Caro Zuckerberg, aggiungo un’altra cosa già ampiamente invocata negli anni: introduci il tasto dislike. Una forma democratica, silenziosa e anonima, di giudizio su ogni post pubblicato da una pagina. Tutto ciò salverebbe la vita alle migliaia di social media manager costretti a moderare centinaia di inutili commenti e che potrebbero concentrarsi sulle reazioni ai contenuti da loro pensati, generati e diffusi.

Ricapitoliamo

Entrereste in una pagina Facebook e trovereste i contenuti che sono sono stati soppesati da chi la segue attraverso il giudizio universale del like/dislike e delle reactions, quelle splendide faccine che ci permettono di “raccontare” con una smorfia il nostro stato d’animo nei confronti di quel contenuto (dati fondamentali per chi gestisce quella pagina).

Chi vuole dir la propria, può serenamente condividere il post e commentarlo sulla sua bacheca andando così a disturbare, o a creare dibattito, all’interno della sua sfera personale, della sua bolla piccolissima e delimitata da quella bellissima cosa che si chiama “amicizia”.

Chi si sente indignato, e deve per forza comunicarlo ai gestori della pagina perché trattenersi proprio non può, potrà farlo privatamente, senza inquinare o condizionare il pensiero degli altri avventori. Si arriverebbe, così, a mantenere più pulita una comunicazione, quella delle pagine Facebook (e non parlo solo di quelle dei politici o delle aziende) che si è sporcata da chi ormai è abituato a considerarle le valvole di sfogo di ogni frustrazione generata dall’esistenza.

Che dici, Mark, può funzionare?

Vedi: Quello che Facebook deve fare per diventare un bel posto dove stare
Fonte: innovazione agi


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