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POETI DA RISCOPRIRE. Clemente Rebora

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di Antonello Longo

Il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, ricorre l’anniversario della nascita di uno dei più grandi poeti italiani del primo novecento, Clemente Rebora, milanese, nato nel 1885.

La vita di Rebora ruota attorno ad una mirabile, sofferta conversione. Il percorso tra poesia, fede, speranza, crisi e dolore, non nuovo nella storia letteraria, egli lo vive in modo radicale e singolare, con un’interpretazione straordinariamente densa dell’espressionismo “vociano”, che Contini definì “autobiografismo metafisico”, in prosa e soprattutto in poesia. Prima una lunga attesa dello “sbocciare” di qualcosa, un amore, un palpito, una rivelazione di quelle che cambiano l’esistenza, poi lo sbocciare, appunto, della fede.

Di formazione laica, nutrì da giovane ideali mazziniani. Studiò all’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, quindi insegnò materie letterarie nelle scuole tecniche e serali a Milano ed altre città del Nord. Nelle edizioni de la “Voce”, curate da Prezzolini, uscì il suo primo libro di versi (“Frammenti lirici”, 1913). La grande guerra, da ufficiale di fanteria, le ferite fisiche e morali, lunghi anni di degenza per un trauma nervoso. Una pianista russa, divenuta sua compagna, gli insegnò la lingua di Gogol e di Tolstoj, autori che egli tradusse in italiano. Ancora una raccolta (“Canti anonimi…”, 1922). Poi la crisi religiosa che lo portò a prendere i voti e diventare, nel 1936, a più di cinquant’anni, sacerdote dell’ordine rosminiano.

La poesia, lungamente interrotta dalla vita religiosa, tornerà negli anni della vecchiaia, segnati da una lunga e penosa malattia, con parole di commossa devozione religiosa. Fino alla morte, avvenuta a Stresa nel 1957.

Per condividerli con chi – per avventura – sta leggendo queste righe, ho scelto, di Rebora, alcuni dei versi che aprono i “Frammenti lirici”.

L’egual vita diversa urge intorno;

cerco e non trovo e m’avvio

nell’incessante suo moto:

e secondarlo par uso o ventura,

ma dentro fa paura.

Perde, chi scruta,

l’irrevocabil presente;

né i melliflui abbandoni

né l’oblioso incanto

dell’ora il ferreo battito concede.

Qui nasce, qui muore il mio canto:

e parrà forse vano

accordo solitario;

ma tu che ascolti, rècalo

al tuo bene e al tuo male:

e non ti sarà oscuro.