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 PIAZZA FONTANA DOPO 53 ANNI, PER NON DIMENTICARE

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Mattarella: “Avvertiamo il dovere di ricordare, con la stessa intensità di sempre, l’impegno di cui Milano per prima fu interprete e che consentì al Paese intero di sconfiggere le strategie eversive neofasciste e le bande terroristiche di ogni segnoche insanguinarono la non breve stagione che seguì alla strage. Fu una delle terribili prove da cui la Repubblica seppe uscire rafforzata nei suoi valori costituzionali e nell’unità del suo popolo”.

 

Di redazione

 

Il 12 dicembre, come oggi, del 1969, cinquantuno anni fa, la strage di piazza Fontana segnò l’inizio della tragica strategia del terrore che avrebbe insanguinato l’Italia per tutti i successivi anni ‘70 del Novecento.

Lo scoppio della bomba nella sede di Milano della Banca nazionale dell’agricoltura provocò la morte di 17 persone e il ferimento di altre 90.

Qualche minuto prima della esplosione, un altro ordigno venne rinvenuto nella sede della Banca commerciale di piazza della Scala sempre a Milano. Nelle stesse ore, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca nazionale del lavoro di via San Basilio; altre due, sull’Altare della Patria di piazza Venezia.

I cinque attentati segnarono l’inizio di quel periodo della vita del Paese che va sotto il nome di “strategia della tensione”.

Dopo decenni di indagini e processi, la strage è ancora senza colpevoli.

Le prime indagini portarono alla ‘pista anarchica’ e su esponenti del gruppo dell’organizzazione di estrema destra denominata Ordine Nuovo e coinvolsero alcuni esponenti dei servizi segreti. Come scrisse la Commissione Stragi “accordi collusivi con apparati istituzionali”.

Il processo a carico dei responsabili della strage si svolse a Catanzaro, tra mille polemici per questa scelta.

La Corte di Cassazione, nel 1987, rese definitiva la sentenza che assolveva per insufficienza di prove gli imputati di strage. Anche il secondo processo portò ad un nulla di fatto. La Corte di Cassazione, nel 205, emise sentenza di assoluzione per insufficienza di prove.

Ciò nonostante, sia le sentenze di primo e di secondo grado sia quella della Corte di Cassazione hanno accertato la riferibilità della strage di piazza Fontana ad Ordine Nuovo. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto accertato, sotto il profilo storico, il coinvolgimento dei primi imputati Franco Freda e Giovanni Ventura sebbene non più processabili perché già assolti in via definitiva.

Tra le mille ipotesi su cui indagarono gli organi inquirenti vi fu quella per cui Pietro Valpreda, tra i primi indagati (e poi scagionato), e altri suoi compagni anarchici avrebbero agito pensando di aver messo solo un ordigno dimostrativo. A fare la strage sarebbe stato un secondo ordigno, piazzato dai neofascisti, e loro si sarebbero trovati a essere indicati come colpevoli di un’azione da guerra civile, ma questa del doppio ordigno non trovò mai adeguati indizi o prove.

Una vicenda storica e giudiziaria complessa che si interseca con altre vicende, sulla quale moltissimo è stato detto e scritto negli anni, sul piano politico e sul terreno delle ricostruzioni giornalistiche, della narrazione letteraria, della memorialistica, del complottismo. Sono state espresse posizioni opposte dal punto di vista della ricostruzione dei fatti, della militanza politica, del punto di vista nell’analisi.

Ma oggi, dopo 51 anni, possiamo guardare quel tragico evento da una prospettiva storica e alcune verità storiche possiamo stabilirle con una certa sicurezza, anche se la lunga storia giudiziaria di condanne e assoluzioni ha lasciato margini di contraddizione e aspetti irrisolti e non sono pochi gli aspetti rimaste ancora da chiarire.

I neofascisti di Ordine Nuovo idearono e organizzarono un articolato piano terroristico con l’obiettivo di destabilizzare la democrazia italiana in senso autoritario. Questo programma si è sviluppato per tutto il corso degli anni Settanta in sintonia con una vasta rete neofascista a livello internazionale e con il provato coinvolgimento di pezzi dello Stato che difficilmente si possono ridurre allo sbrigativo stereotipo dei “servizi segreti deviati”.

Numerosi gli studi assai approfonditi prodotti in questi anni, tra i quali ci piace ricordare “Il segreto di piazza Fontana” di Paolo Cucchiarelli (ultima edizione nel 2019), dal quale ha tratto ispirazione Marco Tullio Giordana per il suo film “Romanzo di una strage”, uscito nel 2012 lasciando dietro di sé una lunga scia di polemiche.

La ricostruzione di Cucchiarelli non ha trovato molto favore. Egli sostiene che nella filiale della Banca nazionale dell’agricoltura sarebbero state piazzate due bombe, una dei neofascisti e l’altra da parte del gruppo anarchico del ballerino Pietro Valpreda, a lungo il principale sospettato e poi scagionato, che sarebbe stato infiltrato dai neofascisti per usarli come copertura per la loro strage. Essi, gli anarchici, i cui attentati raramente causavano vittime, avrebbero agito, secondo quest’ipotesi, nella convinzione di avere messo un ordigno soltanto dimostrativo. Una tesi aspramente avversata da molti e, soprattutto, da Adriano Sofri, con l’ebook “43 anni, piazza Fontana, un libro, un film” (2012).

Fra i molti autori che hanno affrontato con particolare attenzione l’argomento ricordiamo Giorgio Boatti, Enrico Deaglio, Gianni Barbacetto, Paolo Morando, Benedetta Tobagi, Aldo Giannuli.

Per una migliore comprensione di ciò che è stata la vicenda di piazza Fontana occorre collegarla ai fatti successivi, drammatici, che ne sono conseguiti.

Il primo fu la morte, avvenuta il 15 dicembre 1969, dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che precipitò da una finestra della questura di Milano nel corso di un interrogatorio, condotto mentre si trovava in stato di fermo in modo illegittimo, perché prolungatosi oltre i termini consentiti dalla legge.

La fine misteriosa e tragica di Pinelli scatenò una furiosa ondata di contestazione contro il commissario Luigi Calabresi e gli agenti della questura di Milano, chiamati a responsabili della morte dell’anarchico da parte dei movimenti politici di sinistra e di molti intellettuali, da Dario Fo a Camilla Cederna, da Elio Petri a Gianmaria Volontè, dal settimanale “L’espresso” che lanciò un appello cui aderirono più di 750 firmatari, tra i quali anche Norberto Bobbio Umberto Eco, a “Lotta Continua” di Adriano Sofri.

Il successivo processo si concluse tuttavia, nel 1975, con una definitiva sentenza di assoluzione, firmata dal giudice Gerardo D’Ambrosio. Nella sentenza la morte di Pinelli venne attribuita ad un “malore attivo”, provocando un fiume di proteste e di indignazione.

Un clima che sfociò, il 17 maggio 1972, nell’assassinio del commissario Calabresi. Dell’omicidio vennero accusati tre militanti di “Lotta continua”: lo stesso Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Ne seguì un tormentato processo, iniziato nel 1988 e concluso solo nel 1997 con la condanna definitiva di tutti e tre gli imputati a 22 anni di carcere. Diversa è stata la sorte toccata a ciascuno dei tre, che si sono sempre professati innocenti. Sofri ha scontato interamente la pena, Bompressi ha ricevuto nel 2006 la grazia dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per gravi motivi di salute, Pietrostefani, dopo non più di due anni di carcerazione, si rifugiò in Francia ed è ancora latitante.

La strage di piazza Fontana, la morte dell’anarchico Pinelli, l’assassinio del commissario Calabresi, il tortuoso e tormentoso andamento dei processi, hanno provocato quello che è stato chiamato lo shock della “perdita dell’innocenza” di un’intera generazione politica.

Noi desideriamo cogliere lo spirito che si è manifestato l’anno scorso, nel 2019, durante la commemorazione a Milano del cinquantenario della strage, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Parteciparono a quell’evento tanto Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, quanto Gemma Capra, vedova di Luigi Calabresi. Un gesto di riconciliazione dal grande significato.