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Perché Cina e Stati Uniti se le danno di santa ragione su Hong Kong

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AGI “Un’isola desolata, sulla quale si trovava a stento una sola casa”. È questa una delle prime descrizioni di Hong Kong, fornita da Lord Palmerston, in una lettera dell’aprile 1841 al sovrintendente del commercio britannico a Canton, Charles Elliott.

Un posto strategico che non piaceva ai cinesi

L’immagine di Hong Kong durante la prima guerra dell’Oppio, prima del passaggio all’impero britannico, non piaceva alla Cina (un censimento di quello stesso anno parla di quasi 7.500 abitanti divisi in quindici villaggi) ma sottolinea il cambiamento della città, diventata, nel ventesimo secolo, uno dei grandi centri finanziari del mondo.

Lo scalo preferito dai britannici

L’isola passò in concessione perpetua alla Gran Bretagna l’anno successivo, con il trattato di Nanchino, che pose fine alla prima guerra dell’Oppio con la dinastia Qing, l’ultima a reggere il Celeste Impero. Il trattato diede il via a 155 anni di era coloniale, conclusasi nel 1997, quando l’isola e le altre concessioni che oggi compongono la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, vennero nuovamente cedute alla Cina. Hong Kong, o Xiang Gang (“porto profumato” in cinese) veniva offerta ai britannici come porto in cui scaricare le proprie merci.

Hong Kong è il più grande porto dell’Asia

Nel corso dei decenni accrebbe il suo status diventando, prima del ritorno alla Cina, il più grande porto d’Asia, una potenza manifatturiera ed esportatrice e il quarto centro finanziario al mondo grazie a una tassazione molto bassa e a politiche favorevoli. Oltre all’isola, il territorio di Hong Kong si arricchì della penisola del Kowloon nel 1860, in seguito alla firma della Convezione di Pechino, e nel 1898, si completò con la concessione per 99 anni dei Nuovi Territori, che comprende 235 isole e una parte di terraferma.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e un periodo di occupazione giapponese, l’isola tornò sotto il domino britannico e vide rifiorire la propria economia, inizialmente sotto la spinta del settore settile per poi continuare con il manifatturiero e l’elettronica. Hong Kong divenne una delle quattro “tigri asiatiche”, assieme a Taiwan, Corea del Sud e Singapore, le quattro economie che sono andate in contro a una radio sviluppo e ad alti livelli di crescita tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta.

L’avamposto democratico nel cuore della Cina

Le discussioni per il ritorno alla Cina cominciarono nel 1982 e proseguirono per due anni, fino alla firma della Dichiarazione Congiunta sino-britannica, che stabilì il ritorno di Hong Kong alla Cina dopo 155 anni di domino, allo scadere delle concessioni ottenute per i Nuovi Territori. Cominciò, quindi, il countdown, non senza colpi di coda che fecero irritare Pechino: nel 1992 l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, Chris Patten, annunciò una proposta di riforme democratiche per allargare la base elettorale nella colonia, che non portò, però, al suffragio universale.

Il ritorno a Pechino

Il 1 luglio 1997, Hong Kong torna definitivamente alla Cina come Regione Amministrativa Speciale, status riconosciuto nell’articolo 31 della Costituzione cinese. Il primo capo esecutivo di Hong Kong sotto la Cina diventa Tung Chee-wha, imprenditore di Shanghai, scelto da Pechino come primo funzionario al vertice della città dopo la transizione: le prime grandi proteste a Hong Kong sono arrivate durante il suo mandato, e proprio in relazione alla proposta di una legge sulla sicurezza nazionale che ha ottenuto il primo via libera dall’Assemblea Nazionale del Popolo, l’organo legislativo del parlamento cinese.

La prima protesta anticinese

Per le strade di Hong Kong scesero circa cinquecentomila persone, il giorno dopo la fine di una visita nella città dell’allora primo ministro, Wen Jiabao, costringendo l’amministrazione di Hong Kong ad accantonare la legge. L’anno successivo, invece, le proteste si concentrarono contro la decisione di Pechino di non concedere il suffragio universale per l’elezione della massima carica di Hong Kong. 

Gli impegni presi della Cina con Hong Kong

Pechino si impegnò nel 2007 per l’elezione diretta della massima autorità della Regione Amministrativa Speciale entro il 2017 e per l’elezione diretta dei membri del parlamento entro il 2020, suscitando entusiasmo presso l’allora amministrazione di Hong Kong, guidata da Donald Tsang.

La tensione del 2014

La proposta che l’Assemblea Nazionale del Popolo, l’organo legislativo del parlamento cinese, formulò nell’agosto 2014 per la riforma del meccanismo di elezione del capo esecutivo non comprendeva, però, un’elezione pienamente democratica. La mossa di Pechino innescò le proteste di studenti e attivisti a Central, le più grandi fino a quel momento nell’ex colonia britannica, che portarono a 79 giorni di occupazione del centro finanziario e politico di Hong Kong.

Il rapporto con Pechino si complicò negli ultimi anni e peggiorò con l’arrivo al vertice dell’isola dell’attuale capo esecutivo, Carrie Lam: la sua amministrazione propose lo scorso anno di emendare la legge sull’estradizione, con il rischio per gli attivisti pro-democratici di fare di Hong Kong “solo un’altra città cinese”.

Milioni di persone scesero per le strade della città a giugno scorso, e la città piombò nel caos e nella recessione economica, per i continui scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Durante i cinque mesi di proteste, segnate anche da momenti di fortissima intensità a novembre scorso, furono arrestati decine di migliaia di manifestanti – spesso definito “terroristi” da Pechino – che ottennero il ritiro formale della legge. 

L’epidemia mette in pausa le proteste

L’epidemia di Covid-19 ha messo in pausa le proteste, riprese dopo l’annuncio di settimana scorsa della legge per la sicurezza nazionale approvata oggi. Da domenica scorsa sono già oltre 480 le persone finite in manette, molte delle quali per assemblea illegale. La nuova legge approvata oggi ha già attirato forti critiche da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea e il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha già dichiarato che gli Stati Uniti non rinnoveranno lo status speciale concesso all’ex colonia da una legge del 1992, perché con l’approvazione della nuova norma, Hong Kong non gode più di “un alto grado di autonomia” da Pechino, come promesso dalla Basic Law, che regola il rapporto tra Pechino e l’ex colonia dopo il ritorno alla Cina.

Per l’attivista Joshua Wong, volto delle proteste pro-democratiche del 2014 e dello scorso anno, la legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong “mette l’ultimo chiodo sulla bara” delle autonomie dell’ex colonia britannica e dimostra che il modello “un Paese, due sistemi” è giunto al termine. 

Vedi: Perché Cina e Stati Uniti se le danno di santa ragione su Hong Kong
Fonte: estero agi


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