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Partiti aperti: serve un lungo lavoro

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di Danilo Di Matteo

Trovo decisivi i temi lucidamente affrontati da Giovanni Cominelli riguardo all’Italia repubblicana e alla crisi esistenziale dei partiti.

Trovo convincenti quasi tutti i passaggi, pur ritenendo essenziale un punto, condensato dalla celeberrima frase pronunciata da Giuliano Amato nel 1993: la (prima) Repubblica ha finito per ereditare il partito-Stato fascista, trasformando il singolare (il partito) in plurale (i partiti). È la tanto dibattuta questione della “lottizzazione” e dei pesanti tratti consociativi della prima Repubblica. E dunque: quel carattere chiuso, “privato”, oligarchico delle attuali forze politiche e la stessa deriva di quelle che un tempo erano correnti politico-culturali interne a esse sono a parer mio espressioni di una paradossale “partitocrazia senza partiti”. Come dire: il “bambino” (quasi) non c’è più; resta tuttavia l’”acqua sporca”.

Cominelli invoca, comprensibilmente, partiti aperti. Aperti alla società civile. Eppure, finora, i tentativi di rifondare i soggetti politici grazie a essa – da quelli di Leoluca Orlando e di Nando Dalla Chiesa al Pd, con il suo mito fondativo, per l’appunto, delle primarie, autodefinitosi “partito degli elettori”, piuttosto che degli iscritti – sono naufragati o non hanno conseguito i risultati sperati.

Che fare dinanzi a tale impasse? Credo che occorra un lavoro di lunga lena, tanto nei partiti e nella politica quanto nella società. Un lavoro culturale, nel senso più ampio e nobile del termine: un lavoro di elaborazione, di analisi, di dialogo, di messa a fuoco, volto a orientare, suggerire, raccogliere stimoli, sollecitare domande e provare ad abbozzare risposte, in maniera il più possibile circolare.

Fonte: Liberta’Eguale