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OLTRE LO SPECCHIO DEL GENDER

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Le strategie degli attivisti raccontate con i personaggi di Lewis Carroll. Ecco la “lingua di legno” che svuota le parole di senso e rende tutti complici delle discriminazioni. Così diciamo addio al dibattito razionale
Di Guido Vitiello

“Quando io adopero una parola”, proclama Humpty Dumpty, “essa ha esattamente il significato che io le voglio dare” Veronica Ivy, ciclista transgender, circa il vantaggio sulle donne biologiche: “Le donne trans non sono donne?” Lo studio di Françoise Thom sull’uso della lingua nel regime sovietico, una lezione anche per altre direzioni politiche Tautologie incantatorie e il richiamo manipolatorio alle vittime di discriminazione: sono il marchio di molti attivisti oggi
Laprova che siamo entrati ormai nel mondo al di là dello specchio sta nella frequenza inquietante con cui il dibattito americano ci propone fantasiose variazioni sul dialogo tra Alice e Humpty Dumpty dal secondo romanzo di Lewis Carroll, Through the looking glass. Ricordate? Il suscettibilissimo Humpty Dumpty è una buffa creatura in tutto simile a un uovo che si picca molto, diciamo pure che si offende a morte, se qualcuno osa dire che in effetti somiglia precisamente a un uovo; e proprio come un uovo è così fragile che Alice, vedendolo accovacciato in cima a un muro alto e sottile, è preoccupata che possa cader giù e fare una frittata: meglio trattarlo con riguardo. Un’altra cosa di Humpty Dumpty lascia disorientata Alice, ed è il suo uso capriccioso e idiosincratico del linguaggio: “Quando io adopero una parola”, proclama l’esserino ovoidale in tono perentorio, “essa ha esattamente il significato che io le voglio dare – né più né meno”. “Bisogna vedere”, ribatte Alice, “se voi potete fare in modo che le parole indichino cose diverse”. Ma Humpty Dumpty non s’interessa di questa bassa semantica, e supera di slancio l’obiezione: “Bisogna vedere chi è che comanda – e questo è tutto”. Al che Alice, mite e beneducata, si sforza di familiarizzare con quello strano linguaggio nel quale, per esempio, “gloria” vuol dire “un argomento che ti stende al suolo”, e “impenetrabilità” sta per “ne ho abbastanza di parlarne”.
Ed ecco alcune variazioni sulla stessa scena dalle cronache delle ultime settimane. Veronica Ivy, ciclista transgender canadese, era ospite il primo luglio scorso a “The Daily Show”, storico late night show americano. Quando il conduttore Trevor Noah le ha menzionato l’argomento secondo cui le donne transgender negli sport godrebbero di un iniquo vantaggio sulle donne biologiche, Ivy ha protestato di essere a tutti gli effetti una donna biologica: “I miei documenti d’identità, la mia patente da corsa, le mie cartelle cliniche, è tutto di sesso femminile, giusto? E sono abbastanza sicura di essere fatta di materiale biologico. Quindi sono anch’io una femmina biologica”. Mica sono un cyborg, ha aggiunto. Davanti alle obiezioni timide di Trevor Noah, visibilmente preoccupato di non far cadere giù dal muro Humpty Dumpty, Ivy ha riportato tutto alla questione di fondo, sottoponendogli la tautologia di rito in forma di domanda retorica: “Le donne trans sono donne?”. Un dialogo simile poteva immaginarlo solo Lewis Carroll: una fictio iuris – la legge e i documenti ti considerano donna rispetto a certi ambiti – ha il magico potere di determinare la realtà extragiuridica, e l’uso sofistico di un attributo – “biologico” – completa l’incantesimo.
Esattamente un mese prima, all’inizio di giugno, sulla piattaforma conservatrice The Daily Wire debuttava What is a Woman, un filminchiesta un po’ balordo, tra il gonzo journalism e Borat, ambientato per intero al di là dello specchio. L’autore, Matt Walsh, è una specie di troll cattolico, ruspante e attaccabrighe, e per i novanta minuti del film si aggira tra psicologi, medici, professori di gender studies e attivisti ponendo a tutti la stessa domanda: cos’è una donna? La risposta che riceve più spesso è una pura tautologia: “Una donna è chiunque si identifichi come donna”. D’accordo, rilancia lui, quindi si identifica come… che cosa? Cos’è una donna? Ed è qui che i suoi interlocutori, fino a quel momento cordiali fin quasi alla mellifluità, svelano il loro lato Humpty Dumpty. Il professore di gender studies minaccia di interrompere l’intervista, dice che parlare di “verità” e pretendere di arrivare a una definizione “essenzialista” (come si dice nel gergo della Theory postmoderna) è transfobico, saccente e maleducato. La pediatra specializzata nella transizione chimico-chirurgica dei minorenni vorrebbe lei pure fermare le riprese, e tenta di tacitare l’intervistatore giocando la carta della mozione degli affetti: sarà pur vero che solo le galline fanno le uova e che anche la nostra specie è sessuata, ma “i polli hanno forse un’identità di genere? I polli piangono? I polli si suicidano?”. E’ tutto piuttosto surreale.
E arriviamo così alla scena madre dal mondo dello specchio, che risale al 12 luglio, in un’udienza del Senato americano sul futuro del diritto d’aborto. Il poco raccomandabile senatore Josh Hawley – quello che aizzava col pugno alzato gli assaltatori paragolpisti del 6 gennaio salvo fuggire alla chetichella dal Campidoglio, poche ore dopo, per la fifa matta – si trova a confronto con una professoressa di Diritto di Berkeley, Khiara Bridges, studiosa di Critical Race Theory, intersezionalità e altre prelibatezze accademiche. Per tutta l’udienza, Bridges continua a usare perifrasi come “persone con la capacità di restare incinte”, finché Hawley, che da bravo trumpiano ha l’istinto del troll, si avventa come un avvoltoio sul ghiotto boccone e le chiede di specificare: con quelle formule si riferisce alle donne, vero? Alle donne cis, precisa lei, ma anche agli uomini trans e alle persone non binarie che sono in grado di partorire. Hawley continua a sfruculiarla, così Bridges sale sul muro pericolante e voilà: è diventata Humpty Dumpty. Voglio che sia messo agli atti, gli dice seccamente, che le sue domande sono transfobiche e che espongono le persone trans alla violenza. Cita i dati sulle percentuali dei tentati suicidi. Poi, come si conviene nel mondo degli specchi, inverte di colpo l’immagine: “Lei crede che gli uomini possano rimanere incinti?”. No, non credo che gli uomini possano rimanere incinti, risponde il senatore. “Quindi, lei sta negando l’esistenza delle persone trans”, conclude con difettivo sillogismo la professoressa. In altre parole, chi non sottoscrive disciplinatamente un’affermazione di cui il meno che si possa dire è che è discutibile (“gli uomini possono rimanere incinti”) e non accetta una ridefinizione integrale del sesso ricalibrata sulle teorie della gender identity, sta di fatto cancellando l’esistenza di un’intera categoria di persone – una sorta di genocidio linguistico-intellettuale che favorisce un genocidio reale, tramite i pestaggi e i suicidi, perché words are violence e le teorie possono infliggere violenza epistemica. Il cortocircuito ricattatorio tra linguaggio, realtà ed effetti espone a meraviglia il modus operandi di quelle che qualcuno ha chiamato opportunamente “teorie ciniche”, nelle quali, come nel Faust di Goethe, in principio non è il verbo ma l’azione, non il logos ma il potere.
Usciamo per un attimo dal merito della questione transgender, su cui ciascuno può avere la sua opinione e su cui sarebbe bello poter dialogare civilmente, e concentriamoci sulle diverse fasi del metodo Humpty Dumpty. Primo, si prendono delle parole a cui l’uso comune assegna, a ragione o a torto, certi sensi e non altri (“sesso” e “donna”, per esempio, come Humpty Dumpty prendeva “gloria” e “impenetrabilità”). Il secondo passo è svuotarle di significato con i ben noti trucchi decostruzionistici, sottolineando le incoerenze, le contraddizioni interne, le vaghezze, i confini incerti di tutte le definizioni correnti. Poi si tratta di risemantizzare radicalmente quelle parole, slittando secondo la convenienza tra i diversi ambiti (giuridico, biologico, sociologico, psicologico). Infine, si fa leva su queste vecchie parole risemantizzate per tentare di imporre una nuova ontologia; e non già per la via maestra della persuasione e della discussione razionale, ma con un accorto dosaggio di tautologie devozionali (la più celebre delle quali è il mantra “le donne trans sono donne”, punto e basta) e il ricorso al pathos (chi obietta alla tautologia è per ciò stesso complice di morti e violenze, e Humpty Dumpty potrebbe cadere giù dal muro).
Questo modo di procedere non è nuovo, ed era stato analizzato trentacinque anni fa da Françoise Thom in La langue de bois (Julliard, 1987), uno degli studi più profondi che siano stati mai scritti sugli usi politici del linguaggio – nella fattispecie sulla “lingua di legno” del regime sovietico, ma se ne possono trarre lezioni in tutte le altre direzioni politiche. “A differenza della lingua naturale, la lingua di legno non descrive i fatti né le opinioni; si sforza al contrario di rimuovere ciò che esiste e di chiamare all’esistenza ciò che deve essere. Ha dunque molti tratti dell’incantesimo magico, ed è per questo che la più piccola torsione alla formula consacrata le fa perdere potere. Deve essere perfettamente rituale per essere pienamente efficace”. E’ una lingua fatta di “tautologie assiologizzate”, ossia di proposizioni semanticamente vuote a cui è assegnato un valore ideologico positivo o negativo. E non serve a trasmettere un messaggio, bensì a determinare il codice e a fissarne l’applicazione, esaurendosi quasi del tutto nella funzione che Jakobson chiamava “metalinguistica”. In questa logica, il richiamo agli affetti non serve a ottenere “un’adesione fondata su un accordo tra il cuore e la ragione; tende piuttosto a perturbare l’uso di tutte le nostre facoltà mentali schierandole l’una contro l’altra, deviando l’una per mezzo dell’altra. E il pathos intermittente permette di instaurare questa confusione”. L’effetto ricercato è quello di paralizzare l’intelligenza, non già di arricchirla e sostanziarla con l’emozione.
Questo uso incantatorio della tautologia – altro caso di scuola è la definizione perfettamente circolare di razzismo di Ibram X Kendi, uno degli ideologi più popolari e meno intellettualmente attrezzati degli ultimi anni: “Il razzismo è un connubio di politiche razziste e idee razziste che produce e normalizza le disuguaglianze razziali” – coniugato a un uso psicologicamente manipolatorio del pathos e del richiamo alle vittime, è purtroppo il marchio di molte correnti dell’attivismo contemporaneo. La conseguenza è che tanti temi importanti su cui occorrerebbe una conversazione franca, aperta e appassionata – perché la democrazia, diceva John Dewey, comincia nella conversazione – sono ridotti a dei giochi di forza e d’astuzia per conquistare l’egemonia sul codice. “Bisogna vedere chi è che comanda – e questo è tutto”, disse Humpty Dumpty ad Alice.

Fonte: il foglio