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Niccolò Campriani sta insegnando a sparare a tre rifugiati per portarli ai Giochi

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Bologna-Tokyo. Prendi un nugolo di rifugiati, gente senza più una terra e una lingua, e promuovili in appena un anno nella nazionale olimpica speciale istituita dal Cio (il Comitato Internazionale Olimpico). Una scommessa con se stesso, col suo sport, con la vita: solo una leva formidabile poteva convincere quella mente fina di Niccolò Campriani e riportarlo dopo tre anni al poligono di tiro a segno, rimettendo nel mirino i Giochi, dopo il terzo oro olimpico che ha centrato nella carabina dai 50 metri tre posizioni. Solo l’impresa dei “Magnifici tre” poteva caratterizzare il docu-film “Taking Refugee: target Tokyo 2020” del canale olimpico. Con partenza da Bologna, Italia, i primi rudimenti della disciplina, i primi segreti, i primi spari.

A Rio 2016, Campriani, animo e radici fiorentine, aveva bruciato le ultime cartucce nervose, ed aveva attaccato il fucile al chiodo. “In realtà, avrei dovuto prendere l’argento, ho approfittato dell’errore dell’altro finalista, il russo Sergey Komenskiy”. Tipo particolare, il ragazzo dalla spiccata personalità, che aveva già firmato altri due ori e un argento, e s’era quindi assicurato l’immortalità nello sport tutto.

Tre anni fa, il dottore in ingegneria manageriale alla West Virginia University aveva devoluto il premio olimpico all’Alta Commissione dei Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR). Subito dopo, la svolta: “Mi invitarono a visitare l’accampamento di Meheba, in Zambia, uno dei più grandi, in Africa. Quell’esperienza ebbe un impatto molto importante, mi fece pensare a come potessi utilizzare lo status di olimpionico e la rete in cui ero cresciuto per una causa che sento vicina al cuore”.

Era la molla per ripartire, dopo anni di tran-tran agonistico, era la motivazione giusta del post-carriera da tiratore, era il motivo per riabbracciare il fucile, a 31 anni, da Intelligence manager del Cio. Per ispirare altri atleti “di altri paesi e anche di altri sport”, spingerli a imitare il campione e “migliorare il mondo attraverso lo sport”. Una situazione ideale: “Aiuti questa gente e nello stesso tempo fai qualcosa di buono per te stesso, perché, quando ti ritiri, una delle sfide maggiori è trovare nuovi obiettivi e, soprattutto, nuovi propositi”.

Così è nata la proposta e quindi il progetto che ha presentato all’ufficio immigrazione di Losanna alla fine dell’anno scorso, e i primi colloqui. Fino alla selezione di tre soggetti under 30: un uomo, Mahdi, e due donne, Khaoula e Luna. “Niente cognomi, una sola nazionalità certa, quella di Mahdi, l’Afghanistan, con ognuno di loro che ha una storia incredibile e super-motivazioni”. Mahdi ha 22 anni, viene da Bamiyan, è arrivato in Svizzera quattro anni fa, a piedi, da solo, dopo il passaggio in treno dall’Iran, senza l’amatissima madre e l’amatissimo fratellino che ancora si sogna, stravolto dai rimorsi. Kahoula ha 30 anni, viene dai paesi arabi, e grazie al tiro, sta imparando a gestire le emozioni e a imporsi anche nella vita. Luna ha 25 anni, ha lasciato in Africa quattro fratelli e quattro sorelle.

Il caposquadra, Campriani, è il più motivato di tutti: “Credo nel potere dello sport come forza integratrice, come opportunità di imparare gli uni dagli altri per diventare più forti, insieme. Lo dimostra la mia stessa carriera: ho avuto successo perché sono sempre stato aperto verso altre culture e metodi di allenamento. Dividere le mie conoscenze con altri atleti mi ha fatto più forte. Sono convinto che se avessi deciso di isolarmi, cercando di risolvere i problemi da solo, sarei rimasto indietro. Questo sport mi ha insegnato molto a gestire emozioni, paure e istinti. La visita a quel campo di rifugiati mi ha indicato un motto: “Non dispiacerti per loro, credi in loro”. E quindi offrigli gli strumenti per inseguire i loro sogni”.

Campriani è motivatissimo: “Voglio che questi ragazzi acquisiscano un miglior controllo del corpo, che gestiscano la respirazione, che leggano il proprio battito cardiaco. Devono distaccarsi dalle paure del passato, non dimenticarle, ma imparare a gestirle, per potersi concentrare sulla situazione del momento. È un processo di auto-scoperta e vorrei trasferirgli queste capacità”. Campriani è orgoglioso del proprio ruolo: “Il mio ruolo di campione olimpico non è finito con l’ultimo sparo di Rio, essere un olimpionico è una responsabilità, siamo degli esempi e abbiamo la forza di influenzare la gente, che ci piaccia o no. Così, dopo aver passato tanti anni a migliorare me stesso, è arrivato il momento di rimboccarmi le maniche e restituire qualcosa”.

Capriani, oggi, è molto migliore di quello del 2016: “Questo è anche un modo per far pace col mio sport. Dopo la finale di Rio, non ho più sparato, ne avevo abbastanza, perché in qualche modo ho trasformato la mia passione in ossessione, ed ho finito per odiare il mio sport. Ma non volevo che finisse così. E ho trovato una ragione per tornare al poligono”.

Campriani, insieme al vecchio sponsor e alle aziende che gli hanno fornito tutta la sofisticata attrezzatura per i nuovi allievi, ha anche trovato un’occasione per riabbracciare l’antico rivale: “Negli ultimi anni ho passato più tempo col tiratore che ho battuto a Rio, Kamenskiy, che con mia madre. Ci somigliamo tanto. E, quando gli ho presentato il mio progetto, ha contribuito, come tanti altri, in questa nostra grande famiglia del tiro. Perché il mio obiettivo va oltre lo sport in sé, io voglio che lavoriamo tutti insieme, e voglio allargare l’idea anche ad altri sport”.

Per arrivare a una wild-card olimpica ci vogliono un paio d’anni di lavoro, Campriani vorrebbe bruciare tutti i tempi e fare il miracolo già per giugno. Comunque vada, avrà vinto la scommessa con se stesso, avrà dimostrato la forza di aggregazione dello sport. Al di là di quella che sembra un paradosso: persone scacciate con la forza delle armi da fuoco dalle loro radici che con altre armi da fuoco, ma senza violenza, riconquistano un altro po’ di se stessi.

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Fonte: sport agi


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