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Lo Stato Sociale: «Portiamo i diritti del lavoro sul palco dell’Ariston»

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Poco prima del pranzo di venerdì incontriamo, virtualmente, Lodo, Bebo e Carota de Lo Stato Sociale. Si inizia a intravedere un po’ di stanchezza, ma anche gioia, nelle facce dei tre artisti. Sono nella parte alta della classifica del festival, anche grazie alla serata di duetti e cover dove hanno portato Non è per Sempre degli Afterhours. Esibizione impreziosita dalla coraggiosa performance realizzata con Morris Donini, Manuela Fanelli, Toto Barbato e Francesco Pannofino con cui è stata denunciata la situazione in cui versa l’articolato mondo dello spettacolo in Italia, tra la strutturata idea di non essenzialità e la conseguente scarsità e mal distribuzione di contributi e supporti. «È stato inevitabile – dice Bebo – salire sul palco per noi è la gioia più grande però anche una responsabilità». Quando hai modo di parlare a tante persone ti viene voglia di raccontare delle cose che magari non tutti conoscono. Senza mettersi necessariamente in cattedra».

BEBO AGGIUNGE: «Siamo tantissimi lavoratori dello spettacolo che hanno vissuto la crisi dell’ultimo anno. Noi con il piccolo grande privilegio di aver avuto una parte di carriera che un po’ ci ha tutelato economicamente, ma c’è un settore, popolato da decine di migliaia di famiglie e di lavoratori, che non ha ricevuto la necessaria attenzione e strumenti per poter campare più serenamente. Quando si fanno gli appelli bisogna farli nella direzione giusta,ricordandosi la verticalità delle battaglie e così abbiamo provato a portare sul palco più nazionalpopolare che c’è una battaglia di diritti del lavoro». Carota aggiunge: «per noi l’Ariston senza pubblico rappresenta tutti i teatri deserti. Quando guardavo la sala vuota vedevo tutte le sale vuote. Avevamo bisogno che quest’immagine non fosse più solo nella nostra testa ma fosse compresa da chi a casa stava guardando».

AL TERZO GIORNO di festival le problematiche del mondo dello spettacolo si sono fatte palesi rompendo una sorta di tabù. In molti hanno indossato una spilletta con il simbolo del play e della pausa, a testimonianza della sospensione in cui questo mondo, già malato prima della pandemia, ora è in stato comatoso, altri invece hanno ricordato la situazione. Ma per Lo Stato Sociale il merito non è loro, Lodo ricorda che «l’impegno messo da Federico (Fedez) in questi mesi mi aspettavo trovasse un modo di continuare anche sul palco di Sanremo. Altri si sono espressi nei mesi precedenti e so cosa pensano». E aggiunge«c’è un tabù, in tutto il nazional-popolare e nell’informazione generalista, il tabù sulla questione di classe, sulla questione di ricchezza. Il vero tabù che non si mette in campo, ed in parte insiste proprio sul quel che abbiamo fatto l’altra sera, con il Cage di Livorno, con Morris che ha un piccolo cinema in provincia, citando posti e festival, abbiamo ricordato Sherwood Festival ma avremmo anche potuto dire Festa Onda d’Urto. Citando quel tipo di realtà, spesso indipendenti e che camminano sulle loro gambe senza muovere attorno a se interessi economici giganteschi, volevamo dire: va bene fare lo spettacolone, però è un po’ strano che questi show esistono perché ci sono degli enormi interessi economici e tutte quelle altre realtà che sono fuori da quella classe d’interesse non esistono».

E PROSEGUE: «La verità è che è terribile suonare davanti ad un teatro vuoto, tranne in queste sere che è giustissimo. Entrare in scena e dire quelle cose davanti ad una platea deserta era la cosa più giusta del mondo. Se avessimo avuto un teatro pieno in un paese dove le altre realtà non così ricche stanno chiuse, sarebbe stato molto peggio». In chiusura d’esibizione Bebo ha detto «e continueremo a camminare domandando» citando uno dei sette principi base dell’Ezln. Un fuori programma che ha colto di sorpresa anche la regia della Rai, perché non concordata. Solo Lodo, dando il suo assenso finale, sapeva che il socio stava pensando di chiudere così la già forte performance. «Non credo ci sarebbe stata nessuna forma di ritrosia da parte dell’azienda. È una frase ecumenica, nel senso più alto e positivo del termine, che diventa fortissima utilizzando un linguaggio piccolissimo per dire una cosa gigante. E quindi è uscita così un po’ di sorpresa, anche per gli altri miei tre soci».

Fonte: il Manifesto