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“Lo Stato ha consegnato mio padre ai carnefici”: parla la figlia di Luigi Ilardo

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Il ricordo del collaboratore di giustizia, ucciso nel 1996, nei pensieri della figlia: “La nostra famiglia, vittima di scelte scritte senza il nostro consenso”.

Di Livio Mario Cortese


Luigi Ilardo: uomo d’onore, confidente dei Carabinieri, vittima d’un sistema al quale aveva scelto di non appartenere più; la sua esistenza si chiude il 10 Maggio 1996, a Catania, sul selciato di via Quintino Sella.

Ventidue anni dopo (mentre vicende giudiziarie mai concluse continuano a suggerire i più inquietanti sviluppi dell’ipotesi “rapporti Stato-mafia”) la figlia Luana porta nel presente il ricordo del padre nella sua dimensione d’uomo, fuori da ogni contesto criminoso. Una divaricazione dolorosa per l’animo di molti, alla quale non sempre si sopravvive: e il pensiero va alle vicende di Rita Atria o della famiglia Impastato. Chi era dunque Luigi Ilardo? “Solo mio padre: il mio eroe, il mio principe, il mio amore. Credo funzioni così per tutte le figlie del mondo”: così esordisce Luana Ilardo, consapevole che il discorso non sia semplice: “Mio padre era capace di svolgere le mansioni di ‘uomo d’onore’, ma non ne aveva l’indole. Come dire: se fosse nato in una famiglia Rossi, avrebbe concluso gli studi per diventare geometra o ingegnere. Credo che la sua passione per i cavalli sarebbe diventata anche una professione.”. Non si tratta, insomma, di dar giustificazioni: ma di comprendere e far comprendere: “Mio padre è rimasto schiacciato dal peso della parentela alla quale siamo legati: quando non ne poté più, cercò di sottrarvisi”. Una certezza arriva ad alleggerire l’animo: “Anche dal punto di vista processuale il suo nome non e’ mai stato macchiato da nessuna imputazione di omicidio o altri feroci crimini”. Anche così, per le due figlie i primi anni non sono stati semplici: “Io e mia sorella siamo cresciute andando a trovare mio padre in carcere.

Ogni colloquio, una profusione di amore del quale facevamo incetta in attesa della volta successiva: quei momenti tristissimi erano giornate di festa. Liberato dopo tredici anni, poté occuparsi dell’azienda di famiglia: allora lo abbiamo vissuto quotidianamente… per troppo poco”. Altri ricordi, più sereni, hanno l’impronta d’una scelta di vita decisamente sofferta: “Viveva col pensiero che gli animali non ricevessero abbastanza foraggio, che le piante non avessero acqua a sufficienza. Aveva a cuore la famiglia, e non nel senso che si potrebbe pensare: parlo di nucleo familiare. Doveva però assolvere agli usi del contesto in cui era nato. Niente era più lontano dall’indole di mio padre quanto la criminalità: però se nasci in una famiglia di idraulici, al 90% diventi un idraulico, magari un ingegnere idraulico. Ma resti in quell’ambito…”. Eppure Luigi Ilardo quel passo, coraggioso e destabilizzante, lo aveva compiuto al momento in cui la mafia “vecchio stampo” aveva aggiunto alla propria natura criminale un aspetto particolarmente distruttivo, sbarazzandosi delle ultime tracce di etica. Collaborare con le forze dell’ordine diveniva perciò una naturale conseguenza. Nella sua unica deposizione scritta dichiarava di volersi dissociare da un organizzazione delle cui idee non si sentiva più partecipe; condannava l’omicidio del figlio di Santino Di Matteo e della moglie di Nitto Santapaola. Le regole mafiose, per quanto opinabili, avevano come imprescindibile credo il divieto di toccare donne e bambini”.

Il pensiero della famiglia, nella sua accezione più felice, era stato un motivo importante: “Voleva proteggere almeno i miei fratelli, evitando loro il calvario che io e mia sorella abbiamo dovuto patire fin dalla nascita”.

Sull’omicidio del padre, Luana Ilardo non ha mezzi termini. “Apparteneva ad un’organizzazione dotata di proprie regole: per brutali che siano, vanno rispettate dagli accoliti. Anche lo Stato ha delle leggi. Quando lui ha rotto con l’ambiente mafioso, ha pagato: ma ciò è accaduto perché lo Stato stesso non ha mantenuto il proprio impegno. Mio padre, che in quell’istituzione riponeva ogni aspettativa di rinascita, è stato consegnato ai suoi carnefici. Per quanto io aborrisca la mafia, le sue regole e chi ha dato l’ordine e premuto il grilletto, non posso che ammetterne la coerenza! Condanno molto più quegli uomini di Stato corrotti”.

Ripercorrendo gli ultimi giorni del padre, che a Roma aveva incontrato magistrati e ufficiali dell’Arma, il dolore e la rabbia di Luana Ilardo non risparmiano un insigne ufficiale che, a suo parere, avrebbe non poche responsabilità morali nell’omicidio. “Mio padre venne portato al Comando del R.O.S. dal colonello Michele Riccio: a lui aveva praticamente affidato la propria vita. Erano presenti anche i magistrati Tinebra, Caselli e Principato. Nelle sue memorie, Riccio scrive di aver ritenuto che mio padre rischiasse la vita…ma lo ha lasciato solo, l’ha rimandato a casa, dov’è stato ucciso pochi giorni dopo. Uno dei miei fratelli porta il nome del colonnello: per mio padre era un uomo al quale dedicare il nome del proprio figlio”.

In cosa ha mancato l’ufficiale dei Carabinieri? “Avrebbe dovuto stargli accanto finché il programma di protezione non fosse iniziato: mio padre aveva riversato tutte le sue speranze in quelle registrazioni, in quei racconti. Riccio scrive di aver sospettato che i suoi superiori lo stavano ostacolando: perché non è andato ad arrestare Provenzano? Più di qualcosa non quadra: dell’incontro al Comando del  R.O.S.  non esiste un solo appunto. In questa vicenda, compresa la mancata perquisizione al covo di Riina, lo Stato fa una figura pessima. Mi rincuora il fatto che altri uomini s’impegnino in nome della verità: per me la verità -anche dolorosa- è sempre sinonimo di giustizia. Anche se il concetto di giustizia non sempre collima con quello di legalità.

Chi è oggi Luana Ilardo? “Una mamma: cerco di esserlo nei miglior modo possibile. Volontaria della Protezione Civile, ho imparato a esorcizzare il mio dolore cercando di preservare gli altri. Leggo moltissimo: avrei voluto continuare gli studi, altre sono state le priorità… cerco di continuare a vivere con la dignità necessaria”.

L’identità familiare poggia sugli antenati più recenti, considerandone passioni e professioni: Mia nonna era insegnante, come pure mia zia; mio nonno allevava muli e cavalli che forniva anche ad Esercito e Carabinieri. Siamo una famiglia qualsiasi, pur essendo il nucleo Ilardo-Madonia. Per quanto bizzarro possa apparire, siamo vittime di scelte e storie scritte senza il nostro consenso. Oggi non abbiamo più nulla: condividiamo affanni, pene, gioie e ricorrenze come qualsiasi famiglia”.