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L'elegia dei buzzurri con cui Vance racconta (e spiega) l'America

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AGI – Li chiamano redneck, perché passano la vita chini sul volante del trattore ad arrostirsi il collo al sole dei campi del Midwest, o, con un termine che ben rende la crudezza che può avere la lingua americana, white trash, quella ‘carne da fonderia’ che si spacca la schiena nelle industrie della ‘rust belt’.

Per definirli c’è anche una parola dal suono più dolce, hillbilly, che però nasconde un profondo disprezzo e potrebbe equivalere all’italico ‘buzzurro’. In ogni caso si tratta di bianchi impoveriti dalla deindustrializzazione, frustrati dalla morte del sogno americano che non li ha nemmeno sfiorati e arrabbiati, molto arrabbiati. 

A raccontare la loro epopea (un’epopea misera, fatta di piccole battaglie quotidiane che l’indomani ricominciano uguali) è J.D. Vance in un libro il cui titolo originale è per l’appunto ‘Hillbilly Elegy’ e che uscì nell’agosto del 2016 negli Stati Uniti con uno straordinario tempismo perché raccontava esattamente quel popolo che pochi mesi più tardi avrebbe portato Donald Trump alla Casa Bianca.

Quello che fu un fenomeno editoriale si appresta a diventare un fenomeno politico: Vance ha vinto le primarie repubblicane in Ohio per la candidatura a un posto da senatore e a 37 anni affronterà il senatore democratico Tim Ryan.

Spinto da un film Netflix diretto da Ron Howard e interpretato da Glenn Close, il romanzo è stato un successo anche in Italia, dove è stato pubblicato nel 2017 da Garzanti con il più edulcorato titolo di ‘Elegia americana’. Ed è un testo che, più e meglio di molti saggi politici, può aiutare a capire quali irrequietezze si muovano nel ventre dell’America, quella che decide chi vince un’elezione e che non sa trovare l’Ucraina sulla carta geografica. 

Vance i buzzurri li conosce bene perché è stato uno di loro. È nato e cresciuto tra la contea povera di Jackson, in Kentuky, e a Middletown, comunità dell’Ohio devastata dall’eroina. I personaggi del suo libro sono hillbilly violenti, misogini e xenofobi ma fortemente solidali al loro interno e depositari di un proprio senso dell’onore e alfieri di una giustizia che si fa da sé. Un cocktail esplosivo che aveva riconosciuto in Trump il proprio linguaggio e la propria rabbia verso le elite di New York e Washington, ree di averli dimenticati.

Vance non ama considerarsi un politologo, né un sociologo né tanto meno un politico e nella sua storia non ci sono buoni o cattivi così come non c’è un giudizio morale. L’elegia, prima ancora di essere di un gruppo di perdenti, è quella di una famiglia, sgangherata, disfunzionale, burrascosa e violenta con una madre psicotica e figure paterne evanescenti sostituite da una nonna tosta come l’acciaio. 

Il protagonista, che altro non è che un riflesso dell’autore, riesce ad agguantare quel sogno che a tutti coloro che lo circondano è sfuggito, ma il suo riscatto è costruito sulla fatica dei nonni che hanno tenuto a bada le tentazioni e i mostri – a partire dalla madre – che gli giravano intorno e che alla fine, lungi dall’essere sconfitti, vanno a costituire qull’humus che alimenterà le sue storie tra miniere abbandonate, squallide case mobili, capannoni e acciaierie.

“Disoccupazione, povertà, divorzi, droga; la mia patria è un luogo di infelicità. Non c’è da sorprendersi se i proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d’America con la tendenza a colpevolizzare tutti tranne se stessi”, dice Vance dei suoi personaggi. Di nuovo: non è un giudizio morale, ma solo un modo di guardare l’abisso quando si è consapevoli di essersi fermati a un passo dal precipitarvi. 

Source: agi


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