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LE TELEFONATE NON BASTANO PER FERMARE GLI ORRORI RUSSI

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Il ministro dell’agricoltura ucraino ci spiega perché Putin vuole affamare il mondo

Valerio Valentini

Roma. La speranza in un’incrinatura della voce, un lusso che il suo pragmatismo fatto di poche parole si concede appena. “Qualsiasi sforzo, da qualunque parte venga, è il benvenuto. E all’italia non possiamo che essere grati, anche perché proprio in questi giorni sono arrivate sul fronte orientale le vostre armi, che ci aiutano nella resistenza contro l’invasore”. Mykola Solskyi, poi, dell’impegno di Mario Draghi di queste ultime ore è spettatore interessatissimo proprio per le deleghe che gestisce nel governo ucraino. Perché lì, tra una telefonata con Putin, giovedì, e una con Zelensky nella giornata di ieri, nel tentativo di creare dei corridoi alimentari, c’è il destino sospeso di quest’uomo stanco, quarantatreenne dagli occhi appesantiti (“Tempo per dormire ce n’è poco”) che parla tra uno sbuffo e l’altro della sua sigaretta elettronica, davanti a una webcam, con alle spalle una bandiera gialla e blu e una libreria semivuota, nel suo ufficio a Kyiv. Mykola Solskyi dal 24 marzo è ministro dell’agricoltura del suo paese. E si ritrova a dover gestire la più grave crisi alimentare dei tempi recenti. La speranza, dunque, mista al disincanto. “C’è forse una possibilità per arrivare a un cessate il fuoco locale e sbloccare i porti del Mar Nero. Ma è difficile pensare che questo possa essere il primo passo verso una de-escalation”. Si aprirebbe un dialogo, però. “Ma non vorrei che sbagliaste a considerare le manovre di Putin. Per lui, questa catastrofe alimentare non è un incidente collaterale della guerra. E’ un obiettivo voluto, corrisponde a un suo interesse strategico”.
Mettere a rischio i rifornimenti alimentari di mezzo mondo: che senso ha? “Putin vuole che si moltiplichino i fronti di tensione in giro per il mondo – spiega il ministro Solskyi – così da potere avere più tavoli su cui negoziare, più temi da tirare in ballo per ottenere condizioni migliori”. La rimozione delle sanzioni, ad esempio: questo potrebbe essere il prezzo che il Cremlino chiede all’occidente per agevolare l’export di grano e frumento. “Non commento le trattative diplomatiche, non rientrano tra le mie competenze. Dico solo che questa ‘guerra della fame’ per Putin è strategica perché, con un colpo solo, riesce a produrre problemi in decine di paesi nel mondo, e forse in un intero continente”.
L’africa, dunque. Eccola evocata, con le sue centinaia di milioni di persone esposte al rischio di mancanza di cibo, e il conseguente esodo verso l’europa. “Noi ucraini conosciamo meglio di altri l’incubo della fame. Il ricordo dell’holodomor è vivo nel nostro popolo, in ogni famiglia. Non possiamo considerare con leggerezza un simile scenario”.
I numeri, del resto, valgono da soli a mostrare la gravità del problema. E Solskyi li cita a memoria. “In vari punti dell’ucraina sono conservate venti milioni di tonnellate di grano”. Le si tiene in posti protetti, per sottrarle alla minaccia del fuoco nemico, come si fa con le risorse più importanti. “Non c’è il pericolo imminente che quelle derrate marciscano, ma certo questa situazione non può prolungarsi a lungo. In tempi normali, in tempi di pace, dall’ucraina escono almeno cinque milioni di tonnellate di grano e frumento ogni mese”. E l’emergenza non riguarda solo questa estate. “Le manovre di guerra hanno reso impraticabile circa il 70 per cento dei terreni destinati alla coltivazione. Una grossa parte di questi sono stati bombardati. Saranno inservibili a lungo. E dunque anche il raccolto dell’anno prossimo è compromesso”.
Bisogna fare qualcosa, insomma. “Ci sono negoziati in corso, attraverso l’onu, per convincere la Russia a rimuovere il blocco dei porti, a partire da quello di Odessa”. Senza un allentamento della morsa delle navi di Putin, sarebbe pensabile avviare un’opera di sminamento dei fondali? “Sono dettagli riservati, questi, di cui può parlare eventualmente il ministro della Difesa. Noi cerchiamo solo di difenderci”. Si è parlato anche di un intervento del regime di Pechino, per agevolare il trasporto del grano via nave. Ma Solskyi trattiene a stento una smorfia di disapprovazione, a sentirselo dire. “Non vedo un grande coinvolgimento della Cina, in questa faccenda”.
E l’europa? Può fare qualcosa in più? “Abbiamo bisogno di maggiore supporto logistico. E anche di meno burocrazia. Se si migliorassero i collegamenti infrastrutturali ai confini con Slovacchia Ungheria e Romania, e si rimuovessero alcune delle complicazioni formali da sbrigare alle frontiere con quei paesi, sarebbe possibile far uscire molte tonnellate di grano con grossi convogli, e poi imbarcarli altrove, magari nel porto di Costanza, almeno finché non si trova una soluzione migliore. Ci servirebbero anche grossi camion e mezzi adeguati a simili trasporti. Ma non in sostituzione delle armi, intendiamoci. Spero possa essere un aiuto ulteriore, semmai”:
Dal che si capisce come il pessimismo di Draghi, quel non vedere grossi spiragli per la pace, sia condiviso anche a Kyiv. “Hoping and fighting”, risponde allora Solskyi, in una delle poche espressioni che sembrano uscirgli con naturalezza in inglese. “Noi speriamo nella tregua, ma sappiamo che dobbiamo continuare a combattere. Nessuno di noi sa quanto ancora durerà, ma sappiamo bene che solo resistendo possiamo ottenere una pace giusta. La realtà che abbiamo davanti non ci consente di cedere: mentre ora, in questo stesso momento, noi siamo qui a interrogarci sulla fine del conflitto, nel Donbas c’è una forza straniera che ci ha invaso e che ci bombarda, vuole conquistare le nostre città, i nostri villaggi. Potrebbero smettere, potrebbero tornare nel loro paese, e la pace si troverebbe. Ma sappiamo che non lo faranno, e quindi dobbiamo combattere. Per questo continuiamo a confidare nel vostro sostegno militare. E da qualche giorno le armi inviateci dall’italia sono arrivate al fronte e si stanno rivelando utili alla causa dell’ucraina: i nostri soldati le stanno utilizzando per respingere chi ci assale. Non possiamo fare altro che dirvi grazie”.

Fonte: Il Foglio