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Le interviste degli altri (IL RIFORMISTA – Mario Tronti «Cara sinistra, chiedi scusa agli operai: li hai abbandonati»)

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Umberto De Giovannangeli · mag 2021

«Ripartire dal lavoro: questa dovrebbe essere la parola d’ordine della sinistra di oggi», dice al Riformista Mario Tronti, “padre” dell’operaismo italiano. «E quando dico la sinistra di oggi penso a un Pd che abbia l’ambizione di diventare un partito del 30 per cento». «Gli operai del nord che da anni votano Lega, quelli del sud che hanno votato Grillo, sono in una condizione di abbandono politico di cui quel che resta della sinistra dovrebbe chiedere scusa a loro e al Paese», accusa. «Va lanciato un progetto di ricomposizione del mondo dei lavori, una grande alleanza di solidarietà e di lotta tra garantiti e non garantiti. Il Pd è chiamato a dare forma politica a questo progetto. Passa di qui il recupero di una sua riconoscibile identità».
«Va subito lanciato un progetto di ricomposizione del mondo dei lavori, una alleanza di solidarietà e lotta tra garantiti e non garantiti. Letta dia un segnale, il recupero dell’identità dei Dem passa da qui». Draghi? «In Europa ha perorato il tema dei diritti sociali, mi rassicura che a gestire i soldi del Recovery sia lui e non Conte che su questo non ha mai detto nulla»
Èun consiglio che ci sentiamo di dare ai dirigenti della sinistra e del sindacato: leggetela con attenzione. E prendete appunti. Perché quella del “padre” dell’operaismo italiano è una vera lezione di politica. Amato o avversato, comunque ritenuto, da amici e avversari, uno dei pensatori politici più acuti che l’Italia può annoverare. Considerato uno dei fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta, le cui idee si trovano riassunte nel libro del 1966 Operai e capitale, Mario Tronti, ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. È stato presidente della Fondazione CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Noi operaisti (2009), Per la critica del presente (2013), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (con A. Bianchi, 2019).
Professor Tronti, ma questa sinistra che si attorciglia in discussioni senza un centro, che ha innalzato Fedez a simbolo, una sinistra in cerca d’identità da cosa dovrebbe ripartire?
Ripartire dal lavoro: questa dovrebbe essere la parola d’ordine della sinistra di oggi. E quando dico la sinistra di oggi penso a un Pd che abbia l’ambizione di diventare un partito del trenta per cento. Solo con quella parola d’ordine una trasformazione e una crescita di questo tipo possono diventare possibili. Il che non vuol dire dimenticare tutto il resto. Vuol dire che tutto il resto viene naturalmente a seguire: comprese le sacrosante bandiere identitarie che si riassumono nella difesa e nella promozione dei diritti civili, per tutti. Il fatto che il Pd, nell’immaginario collettivo, sia stato percepito fin qui, magari a torto, come il partito che alle battaglie sui diritti civili non abbia accompagnato analoghe battaglie identitarie su diritti e bisogni sociali, ha limitato, e di molto, la sua base di consenso. Dire chiaramente e semplicemente di voler farsi carico, in prima istanza, della rappresentanza del complicato e frantumato mondo dei lavori, sarebbe una svolta, qui ora, con gli strascichi drammatici del dopo pandemia e con l’opportunità di risorse che il Pnrr mette a disposizione per la ripartenza in crescita del paese. Non è un passaggio di semplice realizzazione…
Da cosa nascono le difficoltà?
Le figure di lavoro, e in cerca di lavoro, sono tante, sono disperse, e isolate, arrabbiate, sfiduciate. Anche solo raggiungerle è difficile. Vanno agganciate sul territorio, nei luoghi di lavoro. E questo richiama la necessità di un partito, che anche con riferimenti a esperienze di base che pure esistono, riveda, aggiorni, ricostruisca la sua forma di organizzazione. Ma c’è un punto preliminare da mettere a fuoco. Le sinistre, non solo in Italia, analogamente in Europa e in Occidente, hanno subito passivamente negli ultimi trent’anni una egemonia culturale di parte avversa, un vero e proprio apparato ideologico, che consisteva nel dire che con i processi di modernizzazione, di globalizzazione, di finanziarizzazione del capitalismo, il lavoro non era più il centro d’interesse nella vita degli individui. Una colossale falsa notizia. È perché si è perso il contatto con la quotidiana esistenza delle persone in carne ed ossa che si è potuto cedere a questa narrazione distorta delle cose. Ma di che cosa pensate che discutano le famiglie a tavola tra genitori e figli se non dei loro problemi che riguardano il lavoro malpagato, la preoccupazione di un licenziamento, l’occupazione che manca per i ragazzi e le ragazze e in conseguenza del bilancio mensile di casa? Le famiglie, sì, se gli illuminati “progressisti” postmoderni scendessero dalla loro torre d’avorio per andare a vedere, a sentire e a capire che è ancora questo il nucleo che regge l’intera struttura sociale e non, come credono, un residuo passatista che siccome sta a cuore alla Chiesa cattolica solo per questo va superato. Non ci vuole un’indagine sociologica, basta una presa empirica sulla realtà dettata da una sensibilità che veda le cose dal basso, per assumere le politiche per la famiglia come una priorità politica di attenzione e di governo. E le politiche per la famiglia vanno inserite nelle politiche attive per il lavoro. Una particolare attenzione va posta sul quasi quotidiano insopportabile dramma delle morti sul lavoro. Lavoro sicuro dice tante cose, tutte essenziali.
Il suo libro Operai e capitale è stata una sorta di “bibbia” per una generazione politica e sindacale. Cosa è oggi il capitale?
Il capitale si è profondamente trasformato. È nella sua natura di Proteo procedere sulla strada di continui successivi mutamenti di forma. La capacità di innovazione è la sua intrinseca forza. Il modo in cui è riuscito a buttarsi dietro le spalle una produzione a centralità della grande industria, eliminando così la minaccia al suo interno di una concentrazione di massa della forza-lavoro operaia, è stato un capolavoro politico. Ha sconfitto per semplice soppressione il suo più pericoloso antagonista, il movimento operaio. Quella che si nomina come crisi della sinistra ha queste motivazioni strutturali. Il problema è che la sinistra non ha riconosciuto il tragico di questo passaggio, per la palla al piede della sua cultura storicistico-progressista. L’ha visto addirittura come l’occasione di liberarsi di un suo pesante passato, che non gli permetteva di contare di più e meglio all’interno delle leggi di movimento dell’attuale forma sociale e politica. Si è iscritta in modo subordinato dentro la grande devastante reazione antinovecentesca. L’ideologia di un generico nuovismo è stata la vera morte di ogni istanza anticapitalistica. Invece di cercare dentro il nuovo capitalismo le nuove contraddizioni fondamentali e costruire su queste nuove forme di antagonismo, la sinistra si è illusa di poter gestire, essa, queste contraddizioni, non per utilizzarle ma per risolverle. Si trattava invece certo di riconoscere l’innovazione, ma attraverso la cura della propria tradizione. E la tradizione è quella dell’obbligo all’organizzazione dell’ineliminabile conflitto sociale dentro qualunque novità della formazione economico-sociale capitalistica. Di questo passato non c’è più traccia nella mentalità del ceto politico della sinistra. Era il secolo del lavoro aveva scritto per il Mulino nel 2000, a chiusura del Novecento, Aris Accornero. A riguardarlo dall’oggi, una figura quasi mitica di intellettuale operaio. Il tornitore delle Riv di Torino, licenziato per motivi politici negli anni Cinquanta, che diventa ordinario di sociologia del lavoro e professore emerito alla Sapienza di Roma, con tanto di laurea honoris causa da altra Università. Simbolo del cammino di cui era capace la classe operaia nell’esercizio della sua egemonia. Nel 2006, per Rizzoli, pubblica un libro dal titolo: San Precario lavora per noi, gli impieghi temporanei in Italia, a dimostrazione di come occorreva prestare attenzione alle nuove insorgenze ed emergenze lavorative. Il problema non è di essere operaisti ancora adesso. Il problema è che solo a partire dall’esperienza storica di quel passato operaio, puoi arrivare a comprendere e a mobilitare quella risorsa politica che potenzialmente è tuttora il mondo dei lavori attuali. Gli operai esistono ancora, dispersi e frantumati come dispersa e frantumata è la produzione di beni a cui sono addetti. Gli operai del nord che da anni votano Lega, quelli del sud che hanno votato Grillo, sono in una condizione di abbandono politico di cui quel che resta della sinistra dovrebbe chiedere scusa a loro e al Paese. Perché sua è la responsabilità, sua l’imperdonabile colpa.
Il suo più che un invito, è un appello accorato…
Non va perso altro tempo. Adesso è il momento. Nelle condizioni lasciate dalla pandemia e con un buon uso delle risorse in campo da spendere, va lanciato da sinistra un progetto di ricomposizione del mondo dei lavori, una grande alleanza di solidarietà e di lotta, un nuovo blocco storico, tra garantiti e non garantiti, come si dice oggi, e tra lavoro dipendente e lavori autonomi di varia generazione. Il sindacato ha in questa fase un forte ruolo. Decisiva è la Cgil di Landini, già ben posizionata per questa funzione, insieme naturalmente agli altri sindacati. Il Pd, in unità con altre esperienze di movimento, è chiamato a dare forma politica a questo progetto. Passa di qui il recupero di una sua riconoscibile identità. Letta spenda un dito, un ditino, sul tema del rapporto con i 5Stelle e si lasci libera la mano intera, tutte e due le mani, per dare alla propria parte sociale un segnale di riconoscimento, di mobilitazione, di lotta e di organizzazione.
La sinistra italiana dovrebbe andare a lezione dal “socialista” della Casa Bianca: Joe Biden?
È senza dubbio una novità, che interviene positivamente nella situazione attuale. Tassazione delle società multinazionali, investimenti pubblici nel sociale, nella formazione, sulla salute, sulla questione ambientale e non tanto lo stato imprenditore ma lo Stato in quanto volano di raccordo nell’uso di risorse pubbliche e private, sono certo le cose urgenti all’ordine del giorno. Detto questo, non riesco a unirmi al coro unanime di urrà! per Joe Biden e per i democratici
americani. Sono stati tirati per i capelli a questa svolta. Va ringraziato Trump che li ha svegliati dal sonno dogmatico sulla questione sociale, che durava almeno da Clinton allo stesso Obama. L’ultima virata sociale, dopo il new deal, risaliva ormai alla great society di Johnson, ma anche lì sulla spinta del disastro Vietnam. Hanno bisogno di recuperare, a livello di consenso, l’America profonda suburbana che gli è sfuggita di mano. Hanno già cominciato a farlo. E con questo hanno vinto. È lo stesso bisogno che le sinistre hanno qui in Europa, il recupero del profondo del sociale. Solo che qui da noi non è bastato per questo risveglio il non ancora scampato pericolo populista-sovranista. C’è solo da sperare che funzioni l’emergenza del diffuso disagio civile e sociale conseguenza della pandemia.
Vede dei passi in avanti in questa direzione?
L’Europa si è mossa come comunità economico-finanziaria. È un bene. A quando un suo risveglio politico? Questo è il grande tema. Non credo sia sufficiente la parola d’ordine del “fare come in America”, come un tempo lontano si disse del “fare come in Russia”. Abbiamo qui tutto quanto ci serve, di esperienza e di pensiero, se ci ricordiamo del nostro migliore passato. Si può formulare un sogno: un ritorno d’epoca, sia pure con nuove forme, di quel modello che furono i “trent’anni gloriosi” (1945-1975). Urge, preme, il bisogno di un welfare europeo. Questa è l’Europa politica che si sveglia. Mi sento rassicurato nel vedere in buone mani le ingenti risorse messe oggi a nostra disposizione. Con il precedente Presidente del consiglio rischiavamo molto. Lo stile è l’uomo, ha detto qualcuno. Mi ha colpito un’espressione dell’attuale presidente, buttata lì in una replica in Parlamento. Girava voce che dinanzi ad alcune obiezioni dell’Europa riguardo al progetto di spesa del governo italiano, Draghi avrebbe detto: garantisco io. Alzando gli occhi dagli appunti, con una punta di ironia, precisava: non ho mai detto, “garantisco io, non è il mio stile”. Una bella lezione. Nei giorni passati ha usato parole significative. Quando ha detto: né l’Italia né l’Europa sono oggi come dovrebbero essere. Quando ha assunto in proprio il tema garantiti e non garantiti, impegnandosi a farsi carico della condizione dei lavoratori non protetti. Quando ha perorato attenzione per donne e giovani e ha chiesto una resa strutturale del Sure. E soprattutto quando ha perorato, in sede di riunione europea, il tema fondamentale, strategico, dei diritti sociali. E ha non a caso aggiunto: è possibile oggi fare questo senza più l’opposizione del Regno Unito ormai fuori dell’Unione europea. Ai nostalgici del passato governo ricordo di non aver ascoltato alcuno di questi argomenti dal Conte uno, bis e per nostra fortuna non ter. È stato già osservato che, con l’uscita della Merkel e con il declino di Macron, Draghi è in buona posizione per portare l’Italia al centro dell’Europa. E poi, da ultimo, una considerazione più generale. Draghi non è certo una personalità ascrivibile al campo della sinistra. Il suo è il classico governo del Presidente. Con un’ampia composita maggioranza, che sarebbe bene per il momento non destabilizzare. L’obiettivo prevalente adesso deve essere quello della ripresa economica e sociale del Paese nel dopoguerra pandemico. E quello di almeno incardinare le famose riforme, non solo perché ce lo chiede l’Europa ma perché sono necessarie all’Italia e all’Italia che lavora. Dopo, si potrà tornare in sicurezza alla normale dialettica politica tra sinistra e destra. Ho sempre apprezzato di più la figura del conservatore illuminato che quella del riformista confuso. Meglio avere un avversario forte che cercare un alleato debole. Questo ti spinge a scendere gradini, quello ti porta a salire di livello nella tua azione, ti fa prendere coscienza delle tue insufficienze, ti costringe a coltivare nuove idee e ad approntare gruppi dirigenti all’altezza, per realizzarle.