Type to search

“Le Cose che restano”, omaggio di Giorgio Verdelli ad Ezio Bosso

Share

 

Quando il musicista, che sorrideva sempre e conosceva la musica a memoria, scoprì la sua malattia e le braccia gli facevano male, lasciò il contrabasso e si dedicò al pianoforte; quando anche le mani gli facevano troppo male, lui prese a dirigere e lo fece fino all’ultimo respiro

di Claudia Lo Presti

La serata di gala della decima edizione del Catania Film Festival, ha aperto magnificamente con la proiezione, allo Zo Centro Culture Contemporanee, del film “Le cose che restano”, girato da Giorgio Verdelli, esperto in monografie musicali, e dedicato ad Ezio Bosso, scomparso il 14 maggio del 2020 a soli quarantotto anni. Presentato dalla Indigo Film, Sudovest produzioni e Rai Cinema, viene ammesso subito alla selezione ufficiale della settantottesima edizione della Biennale di Venezia.

La prossima proiezione avverrà a Los Angeles il 9 dicembre, col titolo “The things that remain”.

Il tributo al musicista prende il nome dal suo ultimo brano, inedito. Egli diceva che la frase “le cose che rimangono” fosse “una poesia che racchiude solo in quelle poche parole un verso stupendo, qualcosa che sicuramente rimane nelle nostre anime. Un’ opera di esperienza collettiva; il concetto delle cose che restano non è eterno, ma può diventarlo quando, sebbene tutto ci sembra perso, qualcosa rimane se il pensiero viene condiviso. Qualcosa resterà, anche nel silenzio tra due note”.

Il film è girato alla maniera di Giorgio Verdelli, ovvero con molto rispetto lasciando spazio alla musica e al protagonista: nessuna licenza rispetto a quella che è stata la vita di Ezio Bosso, nessuna personale interpretazione fuori area, anche nella seria consapevolezza che egli si raccontasse da se, esattamente come Pino Daniele o Paolo Conte di cui Verdelli ha già firmato due lavori precedenti.

È piuttosto una poetica ricostruzione a moduli che si alternano, ora dando ampio spazio alla musica e alle trascinanti riflessioni del musicista, ora alle testimonianze affettuose e malinconiche di chi ci ha lavorato insieme, degli amici, dei fratelli. Oltre alla sorella ed fratello, sono presenti nel film Silvio Orlando, Enzo De Caro, Paolo Fresu, Gabriele Salvatores, Paolo Conti, Angela Baraldi, ed altri musicisti ed amici.

Giorgio Verdelli, animando foto in bianco e nero di Ezio piccino, comincia a narrare la sua infanzia a Borgo San Donato, dove abitava in Via Principessa Clotilde. Era nato lì il 13 settembre del 1975 da genitori di umili origini e modesto lavoro; la sua famiglia di operai, era l’unica piemontese, trovandosi in un contesto d’ immigrati da ogni povera parte d’Italia.

A quattro anni sente il fratello suonare la chitarra e si mette a cantare in accordo, incuriosito soprattutto dal suono che usciva da quello strumento; viene affidato ad una prozia pianista che – racconta – gli rifiutava la merendina o di mandarlo a giocare, sino a quando non avesse fatto bene il solfeggio.

Il film ricostruisce tutte le tappe della sua istruzione, formazione musicale e carriera: dal Conservatorio di Torino all’Accademia di Vienna (dove studierà “Composizione e Direzione d’Orchestra), passando a sedici anni all’esibizione come solista a Lione. Dalla Francia partirà la sua carriera straordinaria, brillante che non osserverà soste, sperimentazione, collaborazioni, colonne sonore, direzioni delle più importanti orchestre al mondo.

Il film è da ascoltare e poi guardare, e grazie ad esso si saprà di più sul musicista scomparso: lo si incontra godendo delle diverse apparizioni in televisione, delle registrazioni durante le prove nei teatri di tutta Italia. Egli è proposto esattamente com’era, colto e disciplinato, animato dalla musica che si era impossessato di lui, animandolo e adattando le sue abilità nella fase in cui la malattia degenerativa cominciava a trasformare il suo organismo. Una sinfonia d’immagini che narrano il grande ottimismo, la generosità, la determinazione a sdoganare la musica come bene dell’umanità tutta, ricca o povera che fosse la gente, la musica poteva cambiare la loro vita, ne era certo. Ad esempio, con la figlia di Claudio Abbado a cui lo legava una grande amicizia, promuove un disco dedicato al Maestro e a progetti diversi per includere nella società tutte quelle persone che si sono perse per strada: Associazione Mozart14, così si chiama l’iniziativa culturale ed umanitaria di Alessandra Abbado.

Il ragazzo talentuoso, bello e sorridente, chiaramente sicuro di se, eccentrico appena il necessario, che dava del “tu” ai compositori di ogni epoca, capace di creare spontaneamente suoni con contaminazioni di generi diversi. Il filosofo della musica, colui che aborriva le porte chiuse…”se uno ha bisogno, non deve bussare; è con le porte aperte che ci si aiuta”…

Inserito anche il meraviglioso intervento del giugno del 2018 al Parlamento Europeo, in cui marca la valenza europeista spontanea della musica, spiegando che i musicisti appartengono a tutte le nazionalità e dunque sono la vera globalizzazione, il vero europeismo: una ovazione, tutti in piedi a consumare le mani in applausi poderosi. Verdelli si sofferma sui sorrisi e sui gesti gioiosi ed irrefrenabili delle sue braccia che salutano, indugia con rispetto sul dolore di chi ricorda, sceglie testimonianze di uomini che lo sanno a loro volta raccontare e rispettare nel ricordo riverente e riservato.

Dà spazio anche al suo pianoforte, – “Mr Steinway” – che reca all’interno alcune firme, che viene costruito dopo il 2011, personalizzandolo, alleggerendo la corsa sui tasti per evitare che lo sforzo delle braccia interessate dal male fosse superiore alla sopportazione del dolore. I suoi cani, che portava in tourne, che salvava dalla strada, che gli hanno fatto compagnia sino alla fine: quando diresse il suo ultimo concerto a Rimini (il 19 gennaio del 2020), erano sul palco insieme a lui, durante le prove.

Il regista esperto rende il protagonista senza aggiungere altro a ciò che l’artista racconta di sé: non trasfigura in mielose circostanze il ricordo di una vita di fatti, di successi, di devozioni, d’impegno, disciplina. Ma il film lascia triste lo spettatore, forse perché siamo lontani ad assumere il mito a comprensione della sorte, è piuttosto arduo pensare che la sua breve vita densa di un’attività fremente di cento vite abbia dovuto smettere di generare bellezza.

(Foto di Ivano Bellino)