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L'attivista curda che si batte contro le mutilazioni genitali

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“Quando ero piccola correvo così veloce… Ero così piccola, e quando è arrivato il momento ho cominciato a correre. Tutti i bambini del villaggio si sono messi a inseguirmi. Erano maschi e femmine. Hanno finito per prendermi e mi hanno circoncisa. Ora che sono cresciuta, tanti uomini del villaggio vorrebbero sposarmi. Ma non posso sposare nessuno di loro, perché non dimenticherò mai quello che mi hanno fatto”. Di testimonianze così, Kurdistan Rasul ne ha quante ne volete. Lo dice con una scrollata di spalle, mentre si lamenta del sole che le brucia gli occhi o delle scarpe troppo strette.

La gente mi chiede come faccio a sopportare di udire queste storie, a essere confrontata a ciò ogni giorno. La verità è che non mi fa nessun effetto”. O quasi. La rabbia, appena celata, dominata, è palpabile nonostante la voce allegra. Come un callo, dopo tanti anni di attivismo. 35 anni, due figlie di 8 e 12, Kurdistan Rasul è membro dell’ONG tedesca Wadi per i diritti delle donne. Villaggio per villaggio, da un decennio Kurdistan si batte perché “nessuna bambina debba più subire ciò”: la mutilazione*  che lei stessa ha vissuto da piccola e che non vuole raccontare. 

Dalla periferia di Erbil alle montagne Korek, da Sulaymaniyya a Halabja vicino al confine con l’Iran, Rasul setaccia il Kurdistan iracheno come un tornado. In questo soleggiato martedì di inizio febbraio siamo a Kasnazan, a una decina di chilometri dalla capitale curda Erbil. La macchina si è a malapena arrestata che già lei sta interpellando le anziane del villaggio esigendo di riunire tutte le donne ad ascoltarla. “Se una donna accetta di essere circoncisa, accetterà qualunque altra forma di violenza le venga fatta”, esordisce davanti a un pubblico diffidente e chiassoso.

In una stanza arredata solo di tappeti e cuscini, una decina di donne tra i 15 e gli 80 anni fanno a pugni tra la tradizione che le ha mutilate e le parole di questa attivista dal viso tondo e sorridente che le vorrebbe emancipate. “Vorreste che vostro marito sposasse un’altra donna?”, rilancia Kurdistan prima di elencare i rischi e le sequele dell’infibulazione. Quando l’emorragia o l’infezione non compromettono fin da subito la vita della bambina, saranno la depressione, i dolori mestruali e durante i rapporti sessuali o ancora i rischi mortali esponenziali durante il parto a minacciare la donna durante tutta la sua vita. Le ascoltatrici annuiscono, il chiacchiericcio diminuisce.

Una legge per proteggere le donne?

Nel Kurdistan iracheno, circa 37,5% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito la mutilazione degli organi genitali, secondo gli ultimi dati disponibili. Una cifra in calo rispetto al 58,5% del 2014, ma ancora sconvolgente se si tiene conto della reputazione di questa regione, tradizionalmente considerata come più rispettosa dei diritti delle donne rispetto ai paesi limitrofi. Tanto più che nel vicino Iraq, la percentuale scende all’7,4% stando ai dati raccolti nel 2018 dall’Onu.

Dal 2011, il Curdistan iracheno ha adottato la “Family violence Law” contro la violenza domestica e l’infibulazione. Anche definita “Legge n°8”, la norma si è rivelata poco efficace. “Non è applicata come dovrebbe e ha grosse lacune”, si lamenta Shokh Mohammed, coordinatrice dei progetti dell’Ong Wadi. “Secondo la legge, la vittima deve sporgere denuncia, ma questo è praticamente impossibile per una ragazzina. Di fatto, non c’è ancora stato un solo caso in cui questa legge sia stata applicata”. Nel 2018, l’ONG tedesca attiva in Medio Oriente dal 1992 ha incontrato più di 2.977 donne e ragazze, secondo le ultime cifre diffuse a inizio febbraio. “Abbiamo registrato 315 casi di infibulazione su ragazze sotto i 18 anni” in Kurdistan. 

Il peso della religione e del matriarcato

Alcuni mullah oppongono motivazioni religiose per giustificare l’infibulazione, ma “questo non sta scritto da nessuna parte nel Corano”, ribadisce Kurdistan mentre si dirige a passo di carica verso la moschea del villaggio. La musulmana praticante intende ora rivolgersi agli uomini di Kasnazan. Impacciati come adolescenti a un corso di educazione sessuale, questi si dispongono docilmente in semicerchio. Nel prato che separa le case dalle colline, la voce dell’attivista sovrasta lo starnazzare di oche e galline. Infibulazione, violenza domestica, poligamia. Per far passare la pillola, Kurdistan modula il discorso dosando diplomazia e provocazione. “Siete il capo famiglia, avete il diritto di dire che non volete che venga fatto questo a vostra figlia”, li esorta.

In realtà, l’infibulazione è soprattutto una questione “di donne contro altre donne”, poiché sono spesso le madri a decidere per la mutilazione genitale delle figlie. Secondo un rapporto Unicef del 2014, per il 75% delle donne è stata la propria madre a insistere per effettuare l’operazione. La pressione sociale rimane forte, ancor di più se intervengono le autorità religiose. “Nel villaggio di Halaja c’erano bambine di due anni già circoncise. La donna che praticava le mutilazioni era la moglie del mukhtar (capo del villaggio e autorità nelle questioni di costume). Quindi aveva tanti clienti per due motivi: sapeva come fare l’operazione ed era la moglie del capo-villaggio. Le portavano le bambine da tutti i villaggi attorno”. 

“Non lo fanno più ? Così dicono”.

Vittime e carnefici si mescolano tra le donne del paese. Le anziane, che fino a ieri praticavano l’infibulazione e che hanno oggi perduto questa fonte di reddito, rimangono silenziose. In occasione della giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili il 6 febbraio, alcune di loro hanno simbolicamente seppellito le lame di rasoio e le bacinelle nelle quali adagiavano le bambine in acqua e sale dopo l’operazione. Ma nonostante questi gesti forse troppo eclatanti, difficile decifrare l’opinione di queste donne curve, secche e schive. Di fatto, sono le famiglie ad avere progressivamente deciso di non far più mutilare le loro figlie, grazie all’azione delle Ong come Wadi.

“Ci hanno detto che non era bene per il matrimonio e che nostra figlia avrebbe avuto dei problemi. La gente ha smesso di farlo e abbiamo smesso pure noi”, riassume laconicamente Shahen, 33 anni. “Quindi non lo fanno più?”, chiediamo speranzosi a Kurdistan. “Così dicono”, risponde lei lucidamente. I dubbi persistono, il cambiamento è lento, precario. “In alcuni villaggi più isolati nelle montagne, l’infibulazione è praticata sul 100% delle bambine. Qui dicono di aver smesso… speriamo”. 

*** L’infibulazione consiste nell’ablazione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra. Parte delle grandi labbra possono essere ugualmente asportate. La vulva è in seguito ricucita, lasciando un’apertura per urina e sangue mestruale. 

Vedi: L'attivista curda che si batte contro le mutilazioni genitali
Fonte: estero agi


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