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La tassazione degli extraprofitti delle imprese energetiche

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Malgrado il decreto sia discutibile dal un punto di vista giuridico, nel senso comune quella tassazione è corretta e giusta. Un diffuso sentimento dovuto al rifiuto delle speculazioni e dei profitti di guerra e rimanda al principio che prevede la penalizzazione dei profitti speculativi e delle rendite ovvero dei profitti non guadagnati con il lavoro

di Renato Costanzo Gatti

Il governo ha tassato con una aliquota prima del 10 e poi del 25% gli extraprofitti conseguiti dalle imprese energetiche in seguito al recente aumento dei prezzi delle materie energetiche, in tempi precedenti all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Faccio questa precisazione perché l’aumento dei prezzi non è conseguenza del conflitto ma deriva da semplici leggi di mercato.

L’aumento dei prezzi deriva da uno sbilanciamento tra domanda e offerta di beni energetici, sbilanciamento dovuto alla ripresa della domanda derivante dal rimbalzo economico post covid. I produttori, arginate le emergenze del coronavirus, hanno ripreso a produrre e necessariamente è aumentata la domanda di energia e di conseguenza di beni energetici. Ci sarebbe da chiedersi perché quei prezzi non fossero discesi nel precedente periodo di crollo della domanda, evidentemente con una riduzione delle estrazioni e con la viscosità del funzionamento dei prezzi in un mercato fortemente oligopolistico.

Alla ragione di cui sopra si aggiunga il comportamento di operatori finanziari che, prevedendo erroneamente un calo dei prezzi, hanno venduto materiale energetico per consegna futura puntando sul fatto che, se fossero discesi i prezzi, avrebbero potuto acquistare materiale energetico a costi ben inferiori a quelli considerati per fissare il prezzo di vendita. Non verificandosi il presupposto, e cioè la diminuzione dei prezzi, anzi l’esatto contrario, questi stipulatori di contratti “futures” si sono dovuti affrettare ad acquistare i prodotti promessi in vendita per onorare il contratto. La domanda è quindi ulteriormente aumentata esasperando lo squilibrio tra domanda ed offerta.

Si aggiunga che il sistema di determinazione del prezzo, il SYSTEM MARGINAL PRICE, è quello che determina il prezzo di mercato ed è basato sulle transazioni non sistematiche (spot). I grandi contratti generalmente determinano un prezzo tra fornitore ed acquirente fisso per tutta la durata del contratto. Va da sé che i grandi operatori che hanno acquistato a prezzo fisso e basso (e anche in $ o in €) hanno fatto utili per circa 44 miliardi di € rivendendo sul mercato agli alti prezzi da questo determinati.

Da un punto di vista giuridico

Il governo Draghi, nell’imporre questa addizionale, è stato molto attento ad evitare gli errori che hanno portato all’incostituzionalità del precedente decreto del Governo Berlusconi che istituiva un aumento dell’aliquota IRES per simili extraprofitti causati dalla crisi del petrolio nei primi anni 2000.

In particolare fu decisivo per la dichiarazione di incostituzionalità, il fatto che nel decreto del 2008 l’incremento fosse a tempo indeterminato e che colpisse tutto il reddito delle imprese, mentre il decreto Draghi colpisce solo il presunto fatturato in più registrato in un determinato periodo di tempo. Le altre eccezioni non considerate a suo tempo dalla Corte Costituzionale riguardavano gli articoli 3 (discriminazione delle imprese energetiche) 23, 77 e 117 (uso del decreto legge e rispetto della Costituzione) 41 (tutela dell’iniziativa privata) 53 (capacità contributiva).

Anche se si sono evitati gli errori commessi allora nella redazione del decreto 2008, cosiddetto Robin Hood, non sono mancate nuove critiche. Valgano per tutte quelle poste dal prof. Stevanato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, che ha sollevato eccezioni sulla determinazione dell’imponibile calcolato sulla differenza di fatturato Iva in due periodi: il primo senza crisi di squilibrio tra domanda e offerta, il secondo il periodo soggetto a tassazione.

Vedremo tuttavia se questo decreto Draghi verrà portato in Corte Costituzionale e come questa si pronuncerà. Rimane tuttavia il fatto che una tassazione così anomala contravviene palesemente all’art. 53 della nostra Costituzione, così come contravviene alle leggi di mercato e alla libera iniziativa, ed è costituzionalmente accettabile solo per i suoi caratteri di eccezionalità, temporaneità e finalità sociali che nel nostro caso sono ritrovate nella ricompensa alla popolazione più povera.

Da un punto di vista politico-economico

Se quindi il decreto è sostanzialmente ingiusto da un punto di vista giuridico, ed è salvato soltanto per quella eccezionalità che conferma la regola, ne discende che nel senso comune quella tassazione è, al contrario, totalmente corretta e giusta, anzi, come chiedono Calenda e Leu, è fin troppo bassa e dovrebbe salire al 50% se non al 100%.

La ragione di questo diffuso sentimento rimanda al rifiuto delle speculazioni, dei profitti di guerra, etc. Rimanda cioè al principio che prevede la penalizzazione dei profitti speculativi e delle rendite ovvero dei profitti non guadagnati con il lavoro. Un sano principio liberale.

Ho parlato di profitti di guerra ed allora mi sorge spontanea la domanda del perché non si adotti un simile provvedimento per le industrie belliche che producono armi per l’Ucraina o per portare le spese per la difesa al 2% del PIL.

Ma la mia considerazione è un’altra. Quella tassazione che la Corte Costituzionale legittima eccezionalmente anche per la finalità sociale perseguita, agli occhi del capitalista è illegittima perché viola la sacralità del mercato, del profitto, dell’iniziativa privata, della libera concorrenza. Su questo fronte troverete articoli interessanti sulla rivista dell’Istituto Bruno Leoni, ideologo del libero mercato.

Legittimi quindi gli extraprofitti, le speculazioni, i profitti di guerra, che possono essere moralisticamente condannabili, ma che il libero mercato ben presto sistemerà con la sua capacità di trovare l’equilibrio.

A mio modo di vedere, la filosofia capitalista dimostra il suo vizio di fondo perché è incapace di riconoscere, come in questo e tantissimi altri casi, i fallimenti del mercato. Fallimenti dovuti al fatto che si ritiene che si possa risolvere l’equazione matematica dell’equilibrio economico utilizzando il criterio del profitto derivante dall’adozione quale parametro risolutorio i beni di scambio, anziché risolvere quella equazione con la programmazione della produzione dei beni d’uso.

(Foto ANSA)