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La sinistra riformista e lo Stato impiccione

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Con la consueta chiarezza, Enrico Morando ha esplicitato un’ampia prospettiva politica in due interviste, al Riformista e a La Repubblica. Chi ha partecipato all’Assemblea di Libertà Eguale ad Orvieto nel Settembre scorso, o ne ha letto gli atti, conosce già l’idea del Presidente della nostra Associazione. Spero di non fargli torto se la riassumo sinteticamente di seguito.

Innanzitutto, la prospettiva politica è di tipo bipolare. Morando si riferisce ad un’ampia alleanza, a guida PD, incentrata sull’Agenda “Draghi”, da far evolvere a partire da una “Costituente Riformista”. Il modello dell’alleanza è assai vicino a quello proposto a Napoli per l’Elezione di Gaetano Manfredi, in cui -attorno al PD- si raccolgono forze liberaldemocratiche di centro, forze di sinistra più radicale e la parte pragmatica del M5S. In particolare, su M5S Morando rivendica la battaglia contro il “Lodo Bettini”, ovvero fare dell’Alleanza M5S-PD il perno del centrosinistra con Conte come leader inclusivo.

Ma è forse “l’epistemologia politica” la parte più interessante della prospettiva delineata da Morando. In linea con molte alte democrazie occidentali, Morando considera il centrosinistra composto da “due anime”. La prima è quella dei “liberali inclusivi” (definizione recentemente coniata da Salvati e Dilmore), ovvero riformisti attenti a bilanciare empiricamente crescita e giustizia sociale per massimizzare lo sviluppo di un Paese. La seconda è quella del radicalismo di sinistra alla “Piketty”, focalizzato sulla redistribuzione economica per sanare le ferite sociali del capitalismo globalizzato. La dinamica tra le due anime, condotta in modo pragmatico e “evidence-based” davanti agli elettori, dovrebbe consentire al centrosinistra riformista di rispondere sempre in modo adeguato alle sollecitazioni economiche e sociali di un certo periodo storico. Morando non lo dice in modo diretto, ma è abbastanza chiaro che questo modello di centrosinistra dovrebbe essere guidato adesso (e prevalentemente in futuro) dall’anima “liberale inclusiva”, non foss’altro per il richiamarsi completamente all’Agenda Draghi (Draghi, ca va sans dire, appare il nume tutelare di quest’anima politica).

Come ho avuto già modo di dire a Enrico Morando, e di scrivere qui parlando di un altro tema (Scienza e politica), condivido pienamente questa visione sul piano metodologico; ma ritengo altresì che abbia alcuni limiti fondamentali a livello di implementazione pratica. Chiarire e dibattere intorno a questi limiti, secondo me, può aiutare a definire meglio la prospettiva del centrosinistra nel prossimo futuro e dare forza anche a questo scenario.

Il primo problema che io vedo alberga nella componente “pikettiana”. Come diceva sempre il compianto Luciano Pellicani, Marx era schizofrenico: da una parte esaltava il dispiegamento dinamico dei mezzi di produzione da parte della borghesia, dall’altra condannava con la forza di un religioso il profitto e l’accumulo di ricchezze dell’individuo. Ecco qua il problema: per molti (forse per tutti) i pikettyani, l’economia di mercato è un sistema progressivamente da superare o da modificare radicalmente, in nome del bene morale supremo, ovvero l’eguaglianza sociale tra le persone. E’ una visione foriera di guai, che attinge anche alla tradizione cattolica terzomondista e anticapitalista (illuminante, a questo proposito, un fondo di Gianfranco Ravasi -Presidente del concilio pontificio sulla cultura- sul Domenicale del sole24ore nel settembre scorso, in cui si citava la frase “il denaro è la misura dell’incapacità dell’uomo di amare il suo prossimo come se stesso”).

Il problema è che senza la “distruzione creatrice” del capitalismo non può esistere la società aperta come noi la conosciamo. Piaccia o non piaccia, è il desiderio di miglioramento individuale, la capacità di rischio individuale, la curiosità intellettuale e scientifica individuale che hanno prodotto il gigantesco progresso dell’età contemporanea. Focalizzarsi sulla redistribuzione come imperativo morale ci riporta al tempo delle tribù del Pleistocene, dove i primi uomini si raggruppavano in piccoli consorzi basati sull’eguaglianza dell’accesso alle risorse, in una dinamica economica a somma rigorosamente zero. Ed infatti molti pikettyani sono sempre pericolosamente inclini al populismo de “l’uno vale uno”; hanno scarso riguardo per le forme del liberalismo politico (es: garantismo giudiziario, specie in ambito economico); vivono nel ricordo di leader molto amati, ma politicamente sterili e ascetici come Berlinguer, La Pira. Insomma, per i pikettyani non basta “tosare la pecora del capitalismo” per mantenere in equilibrio la società, ma occorre anche che tutte le pecore, tosabili o meno, non facciano mai troppa lana perché è moralmente ingiusto. Ultimamente alcuni di loro si sono spinti ad identificare nella pandemia di Covid19 un’occasione di palingenesi della società di marca egualitaria e ambientalista.

Si dirà: ma i pikettyani radical-moralisti-populisti sono pochi, e possono essere tenuti a bada al PD sfruttando i loro voti. Forse, ma di sicuro il loro immaginario ha un ampio consenso in un Paese dove milioni di persone sono impiegate nel terziario a guida statale o sono pensionati; senza demonizzare nessuno, non è a queste persone che si può chiedere di scambiare un po’ di rischio economico (necessario) al posto di una protezione molto largamente intesa come epica dei diritti costituzionalmente attribuiti ai cittadini. E infatti non passa giorno in cui non si argomenti sui giornali, social o piazze sul “tradimento” della sinistra verso i più deboli, il sindacato ecc…Per carità di Patria taccio sulle sbandate neo-ecologiste in ambito energetico e alimentare, basate spesso sulla crassa ignoranza dei dati scientifici o sulla loro manipolazione. Per riassumere: la visione radicale moralista di un mondo abitato da finanzieri avidi e corrotti, con la complicità della sinistra di governo imbelle, è molto più diffusa di quanto si creda, specie in un Paese come l’Italia. In un mondo pieno di solitudini iperprotette, che ricevono un puntuale cedolino a fine mese da un’amministrazione dello Stato, dubito molto che l’alternanza liberali/pikettyani funzioni. Non siamo in UK, culla della società liberaldemocratica.

Ma un secondo problema alberga, secondo me, anche nella corrente “liberale inclusiva”. La punta di diamante di questa anima, e anche quella che viene identificata come più efficace per guidare la sinistra, è quella che si rifà alla competenza amministrativa: il Partito dei Sindaci. Il messaggio è: noi amministratori pubblici sappiamo bene cosa vogliono i cittadini; efficienza, tecnologia, buongoverno. La leadership a sinistra non può essere basata sull’ideologia, ma sull’esperienza di donne e uomini che nel governo locale si adoperano ogni giorno per risolvere problemi. Più che il “Capitale del XXI secolo” di Piketty, per governare ci vogliono delibere ed ascolto.

C’è del giusto in questo approccio. Ma non tutto brilla come appare. Da anni ormai si è imposto nella classe dirigente amministrativa di (centro)sinistra l’idea di ergersi a pivot in tutte le attività economiche e sociali che caratterizzano proprio territorio. Si tratta spesso di un keynesismo molto all’italiana, pervasivo e burocratizzato, in cui non si riesce a fare quasi nulla senza avere una strada pianificata e sgombrata dal potere politico. Provate a pensare di andare da uno dei governatori più di successo a dire: sei brava/o ma la tua amministrazione non può essere il crocevia economico/sociale di tutto il territorio; lascia liberi gli individui di intraprendere eliminando la farragine amministrativa e lo Stato ipertrofico!

Con la solita scusa dell’economia sociale, molte amministrazioni locali sono bulimiche di competenze, generando molto spesso un sistema asfissiante e poco efficiente. Si pensi per esempio alla Sanità o alla gestione delle partecipate. Ma nessun membro del partito dei Sindaci sarà mai contento di cedere un po’ di potere alla dinamica individuale della società. Anzi, chiederanno un riconoscimento ancora maggiore.

Insomma, molti pikettyani e liberal-inclusivi, sono alternativi solo in linea di principio. Viceversa in buona parte condividono il modello dello Stato impiccione a prescindere, che quasi sempre si rivela inefficace. I pikettyani o fanno per moralismo, identificando nello Stato l’Entità preposta alla giustizia in terra; i pragmatici amministratori liberal-inclusivi perché è un modello che li mette al centro della dinamica sociale ed economica, aumentandone il potere e l’influenza. In entrambi i casi non si dispiegano mai le forze e le risorse produttive dei cittadini che, soprattutto a sinistra, dovremmo riconoscere come le uniche vere forze di emancipazione sociale.

Felipe Gonzalez, un socialdemocratico, diceva che il governo funziona come un’auto-officina: ripara la vettura che non va, ma poi le macchine corrono da sole sulle strade. La Storia insegna che tosare la “pecora capitalista” è cosa buona e giusta; ma in primo luogo bisogna che la lana cresca portando la pecora in un bel pascolo e lasciandola brucare in pace. Questo fa Draghi, e questo vorrei aggiungere al discorso di Morando.

Fonte: Libertaeguale.it