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La sinistra non è più operaia, gli operai non sono più di sinistra

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di Giovanni Cominelli

La ricerca condotta dall’IPSOS di Nando Pagnoncelli lungo tutto il mese di ottobre corso, con oltre 4 mila interviste, è dirimente e spietata almeno su un punto: gli operai non sono più di sinistra, la sinistra non è più operaia.

Gli operai che votano PD sono ridotti all’8,2%. Se vi aggiungiamo Articolo 1, Sinistra Italiana e Italia Viva, gli operai di sinistra arrivano al 12,4%. Gli operai che votano Lega sono il 27,8%. La Lega di Salvini è il nuovo partito operaio. Eppure, non pare proprio che voglia portare al potere la classe operaia, non è incline alla dittatura del proletariato, non crede alla “funzione nazionale della classe operaia”. A sinistra non sanno darsi pace e pour cause! La sinistra radicale accusa il PD di tradimento, di cedimento al liberismo – “selvaggio”, naturalmente, ed è colpa di Renzi! –  ma poi, di suo, del voto operaio raccoglie solo le briciole.

Intanto, va ricordato, non si tratta di una frana improvvisa e imprevista. Già all’inizio degli anni ’90, gli operai che votavano DC erano passati armi e bagagli alla Lega. Continuavano ad andare a Messa, ma fuori dalla chiesa andavano a votare Lega, con grande disappunto di molti preti. Quanto agli operai comunisti, già il 30% degli iscritti alla FIOM di Bergamo votava Lega. Adesso lo smottamento è totale. E’ irreversibile?

Per rispondere a quella domanda, occorre indagare le cause, prendendo atto del fatto che è cambiata la classe operaia e che è cambiata la sinistra. Già, all’inizio degli anni ’70, nei grandi centri industriali del Nord era cominciata la diaspora produttiva: chiusure e delocalizzazioni. Avanzava la globalizzazione. Gli operai hanno incominciato a disperdersi. Politicamente, tuttavia, erano tenuti insieme da un potente mito novecentesco. Nel PCI la bolscevica dittatura del proletariato era trascolorata nella “funzione nazionale della classe operaia”. Ma il nocciolo razionale era sempre lo stesso: battendosi per la difesa dell’occupazione, rivendicando l’aumento dei salari, lottando per un’organizzazione del lavoro meno disumana, gli operai diventavano anche classe sociale che spingeva per la produzione, per lo sviluppo, per l’accesso generale ai consumi, compresi i propri. Insomma: si battevano per un Paese più ricco e più civile. Facevano l’interesse di tutti. E quale altra classe avrebbe potuto collocarsi in questo punto di intersezione così privilegiato, per il quale facendo i propri interessi particolari si realizzano quelli universali? La borghesia? Mentre gli imprenditori si battevano per i loro privatissimi profitti, giocavano alla finanza e agli investimenti nell’immobiliare, esportavano i soldi in Svizzera, gli operai tiravano la carretta per tutti. E poiché non di solo pane vive l’operaio, ma anche di coscienza della propria funzione, di visione e di ideologia, questa veniva elaborata e gli era fornita dall’esterno – come dettato da Lenin – dal gruppo dirigente comunista, un gruppo di intellettuali gramscio-crocio-togliattiani, pensosi del comunismo futuro. Fornita, non gratis, si intende, ma in cambio di voti, di rappresentanza, di potere locale e nazionale.

Perché questo scambio si è spezzato?  Per molte e convergenti cause. Il numero di operai sicuri del proprio posto è diminuito. La diaspora ha disperso la grande fabbrica, frammentandola in piccole unità, più sensibili alle crisi cicliche, più dipendenti dalle fluttuazioni dei mercati. Insomma: occupazione flessibile e più precaria. Le rapide e imponenti trasformazioni della produzione e del mercato del lavoro hanno accumulato una domanda centrale e dirimente: quella della protezione. Il riflesso di protezione dei protetti scattò automaticamente nel sindacato, che salutò bellamente la funzione nazionale della classe operaia. Il sindacato difese i propri associati, di cui oltre la metà già in pensione. Chi stava dentro il recinto era protetto, che si trovava sbattuto fuori, restava in balia di se stesso.

La sinistra, a questo punto, ha perso la trebisonda. Il sindacato ha incominciato a difendere le aziende decotte, più facilmente se delle Partecipazioni statali, a opporsi ai licenziamenti economici, a favorire gli scivoli e i prepensionamenti a carico del debito pubblico. E la sinistra al governo: difendere i posti di lavoro o il lavoro? Essendo essa incerta e oscillante sul punto, gli operai già elettori di sinistra del Nord produttivo si sono rifugiati sotto l’ala del sindacato – chi ne era iscritto – e della Lega all’opposizione.

Intanto, sotto il lemma “lavoratore” si è raccolto un ventaglio  di figure sociali: una fascia bassa, che va dalla logistica al food-delivery al lavoro nero e schiavistico degli immigrati, una fascia media di operai specializzati, una fascia alta di ricercatori e tecnici. Hanno interessi immediati diversi, ma in quanto lavoratori hanno bisogno di un salario minimo, di politiche efficaci di sviluppo e, in quanto cittadini della Repubblica, di un quadro di “Flexi-security”: flessibilità del mercato del lavoro, sicurezza sociale, politica attiva del mercato del lavoro con diritti e obblighi per i disoccupati.

Perché il PD, al governo in alternanza dagli anni ’90, non ha attuato quelle politiche, al punto da aver perso l’eredità storica dell’insediamento sociale del PCI?

Secondo una tesi esplicativa radicale, la conquista necessaria di una filosofia liberale dei diritti ha fatto perdere alla sinistra, in particolare a quella di matrice comunista, l’idea che il motore dello sviluppo di ogni società umana è l’intreccio tra forze produttive e rapporti di produzione; che il lavoro umano è la forza produttiva primaria; che il lavoro é il fondamento del valore. Vedi Adam Smith e Karl Marx. La sinistra negli anni ’90 ha abbracciato la filosofia della Terza via, attribuita Clinton-Blair-Schröder- D’Alema, che avrebbe puntato tutte le sue fiches sul futuro luminoso della finanza. La quale ha conferito il primato all’ “economia di carta” – la tesi fu già cara a Alfredo Reichlin – travolgendo “l’economia reale” e i suoi protagonisti. Insomma, un deficit di materialismo storico.

Secondo un’altra tesi, il deficit della sinistra, invece, sarebbe di riformismo. La cultura della “Flexi-security” è sempre stata disprezzata come socialdemocratica e riformista. Se il lavoro è un diritto civile fondamentale, la sua difesa si realizza non difendendo un posto divenuto antieconomico e obsoleto, ma assistendo il lavoratore nella transizione ad un nuovo posto. Ma qui la sinistra si è posta in coda al sindacato. Che è diventato una forza conservatrice: protegge “i suoi” e stop. Solo che, una volta avviati sulla strada dell’assistenzialismo corporativo, si può essere sempre scavalcati da qualcuno ancora più assistenzial-corporativo: Lega, M5S, FdI. Avanti, dunque, con Quota 100 e con il Reddito di cittadinanza!

Resta che la sinistra, incerta sulla propria identità, o perché non più comunista o perché non ancora riformista, ha perso gli operai.

Non come esito fatale della globalizzazione avanzante, ma di un’inadeguatezza di cultura socio-politica di governo.

Fonte: Editoriale da santalessandro.org