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La rivincita di Saragat e il compito di Schlein

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di Danilo Di Matteo

Anni addietro mi capitò di notare come Marco Ferrando, portavoce del Partito comunista dei lavoratori, in occasione di una tribuna politica, in fondo riproponesse la celeberrima triade cara a Giuseppe Saragat: case, scuole, ospedali.

Il leader socialdemocratico, come rilevò dopo il voto del 1953, subì (e fu corresponsabile di) “un destino cinico e baro”. La sua creatura politica oscillava tra il rappresentare una sorta di corrente esterna della Dc e del Psi. E veniva accusato di “tradimento”, spesso, da chi conosceva assai meno di lui Marx o, poniamo, l’austromarxismo. Come ebbe a scrivere sull’album dalla copertina rossa dedicato a Berlinguer nel 1985 rivolgendosi ai comunisti, “avete pubblicato decine di edizioni del Capitale e non vi siete accorti di ciò che ha notato un vile socialdemocratico” (aveva scovato una citazione errata di Dante nell’Introduzione all’edizione francese del Capitale, appunto, da parte di Marx. Lui, che amava la poesia e aveva accanto al letto i Canti di Giacomo Leopardi). D’altro canto la Dc di Fanfani degli anni Cinquanta si “appropriava” delle “ricette” keynesiane e svedesi.

Confesso di subire il fascino, quasi “estetico”, di tali paradossi della vita e della storia, se non fosse per il loro volto drammatico.

Ecco, oggi si riscopre l’importanza della sanità pubblica e della scuola pubblica, specie dopo il Covid. E si evocano o attuano politiche neokeynesiane su scala europea. Già, la “scala”, le dimensioni; quelle sono cambiate, rispetto al tempo di Saragat. Come direbbe Habermas, la nostra è l’epoca della “costellazione post-nazionale”. “Modernità-mondo”, la definisce Giacomo Marramao, non più “modernità-nazione”. E se Elly Schlein, euroamericana fin nel nome, fosse il segno di tutto ciò? E se il suo compito, accanto a Stefano Bonaccini, fosse quello di reinterpretare nei giorni nostri la socialdemocrazia?