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La questione dei 'wet market' in Cina non è ancora risolta

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Mentre crescono i dubbi che il coronavirus all’origine dell’attuale pandemia possa essere sfuggito da un laboratorio di Wuhan, nel mirino della comunità scientifica e di intelligence rimangono i “wet market”, i mercati in Cina dove vengono venduti animali selvatici e fauna ittica considerati possibili intermediari del coronavirus.

Già all’indomani dei primi casi di polmonite anomala riscontrati a Wuhan i sospetti si erano concentrati sul mercato Huanan della città: quello è stato chiuso il 1 gennaio scorso, ma altri rimangono aperti.

E a chiederne la chiusura, il 3 aprile scorso, è stato il virologo della task force della Casa Bianca, Anthony Fauci: “dovrebbero essere chiusi immediatamente”, ha dichiarato il 3 aprile scorso.

Il fronte contro i ‘wet market’, dove gli animali vivi vengono trucidati (il termine ‘wet’, umido, deriva proprio dal pavimento scivoloso creato dal sangue e dalle viscere animali cadute a terra) si fa sempre più vasto.

Tre giorni dopo è stato l’Onu a chiedere un divieto mondiale e definitivo per evitare lo scoppio di future pandemie, tutelare la loro salute e quella umana. A lanciare l’appello è stata Elizabeth Maruma Mrema, segretario esecutivo ad interim della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità, che ha stabilito un rapporto diretto causa-effetto tra recenti virus globali e distruzione della natura, che si ribella contro l’uomo.

“Proprio la perdita di biodiversità è un fattore determinante nell’emergenza di questi nuovi virus e ora due terzi delle infezioni e delle malattie emergenti provengono proprio dalla fauna selvatica”, ha sottolineato la responsabile Onu, facendo riferimento al disboscamento su larga scala, all’intensificazione dell’agricoltura, ai cambiamenti climatici antropogenici come concausa del fenomeno.

“Il messaggio che ci arriva è che se non ci prendiamo cura della natura, lei non si prenderà cura di noi. Per questo motivo i mercati di animali vivi vanno messi al bando”, ha avvertito.

Al momento in Cina vige un divieto temporaneo dei mercati di fauna selvatica – zibetti, pangolini, pipistrelli, coccodrilli – ma ora deve essere reso permanente. Alcuni di questi mercati, ma non tutti, vendono animali vivi, e una parte soltanto di loro anche esotici, con un giro d’affari legato alla vendita di queste ultime specie che appare considerevole: secondo i dati del governo cinese era superiore a 73 miliardi di dollari nel 2017.

Già all’indomani dello scoppio dell’epidemia di Sars, le autorità cinesi avevano provato a vietare o a ridurre la vendita di animali selvatici come genette, pipistrelli o serpenti in questi luoghi, ma senza successo.

All’indomani della diffusione del contagio da coronavirus, infatti, il governo cinese ha temporaneamente vietato il commercio di animali selvatici in tutto il Paese, e il mese scorso il Ministero dell’Agricoltura ha pubblicato una lista, in attesa di approvazione, di animali che possono essere venduti per il consumo delle carni: per la prima volta sono stati esclusi da questa categoria cani e i gatti, classificati come “animali da compagnia”, mentre rimangono nell’elenco la renna, l’alpaca, il fagiano, lo struzzo e la faraona. Visoni, procioni e due speci di volpi potranno, invece, essere messi in commercio ma non per scopi alimentari.

Sul fronte della regolamentazione legislativa, il punto più avanzato è la nuova legge sulla biosicurezza, in attesa di approvazione. La bozza in discussione prevede un meccanismo di coordinamento in cui rientrano i Ministeri dell’Agricoltura, della Scienza e Tecnologia, della Sanità e degli Affari Esteri, più altri organi militari.

Nello specifico, il testo della legge, citato dall’agenzia Xinhua, prevede un sistema di primo allarme “per prevenire e controllare grandi o improvvisi scoppi di malattie infettive ed epidemie relative ad animali e piante”.

Intanto, il governo cinese ha recentemente negato l’esistenza dei “cosiddetti wet market di animali selvatici”. In risposta all’appello del segretario di Stato Usa Mike Pompeo alla Cina e ai Paesi del sud-est asiatico di chiudere i propri wet market, formulato il mese scorso, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, ha sostenuto che la Cina ha mercati per gli animali che non sono vietati da leggi internazionali e ha dato vita a leggi per vietare la caccia, il commercio, il trasporto e il consumo illegali di animali selvatici.

In assenza di passi più decisi, le polemiche sull’origine del coronavirus che ha innescato la pandemia di Covid-19 hanno comunque avuto un primo effetto anche sui wet market, molti dei quali stentano a fare affari, dopo la riapertura in seguito al contenimento dell’epidemia. Scrollarsi di dosso l’identificazione con il contagio da coronavirus è difficile, e i clienti scarseggiano, come mostra un video del South China Morning Post, girato proprio in uno di questi mercati a Wuhan, la città da cui si è diffusa l’epidemia.

Oltre alla paura che può essersi generata in molti avventori, questi luoghi risentono anche del cambio di abitudini dei consumatori, soprattutto le fasce urbane più giovani, che ai mercati all’aperto preferiscono i supermercati, e che spesso ordinano on line anche i prodotti freschi. La tendenza è stata intercettata, tra i primi, dal gigante dell’e-commerce fondato da Jack Ma, Alibaba, che ha aperto nel 2016 il primo punto vendita della catena Hema (Freshyppo) e che a fine 2019, contava già 197 store in tutta la Cina, in forte crescita soprattutto nelle grandi città di Pechino e Shanghai e nel sud-est del Paese. 

Vedi: La questione dei 'wet market' in Cina non è ancora risolta
Fonte: estero agi


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